Indice delle parti
Introduzione
Per me la preghiera è un enigma e una responsabilità:
in quel momento parlo nientemeno che con il mio Creatore. Non mi sorprende che i
discepoli di Gesù gli abbiano chiesto d’insegnare loro a pregare. La risposta di
Gesù è diventata forse anche troppo famigliare. Sebbene molti conoscano «La
Preghiera del Signore», pochi riflettono sul senso delle parole che pronunciano.
Una marea di libri è stata scritta per spiegare il significato di questa breve
preghiera, ma non è facile afferrare completamente tutta la portata delle parole
di Gesù. Infatti, il primo ostacolo per una comprensione corretta della
preghiera è il tradizionale titolo: «La preghiera del Signore». Lo stesso Gesù
non ha mai pregato usando queste parole; piuttosto egli ha dato questa preghiera
per i suoi discepoli. Perciò, in realtà è «La preghiera dei discepoli».
Inoltre, l’importanza del retroterra giudaico della preghiera e della lingua che
Gesù ha usato è stata trascurata o minimizzata. Gesù era un giudeo, che parlava
ebraico ai suoi discepoli ebrei durante i giorni difficili dell’occupazione
romana della nazione d’Israele durante il primo secolo della nostra era. Un
cristiano moderno ha una comprensione abbastanza diversa della preghiera, della
Scrittura e della fede d’un maestro giudeo quale era Gesù, per non parlare delle
grandi differenze di lingua, di cultura e di storia. Si può facilmente perdere
la grande profondità del messaggio di Gesù anche se si crede in lui. Proverò qui
a riscoprire qualcosa dell’atmosfera originale giudaica nella quale Gesù ha
insegnato ai suoi discepoli come avvicinarsi a Dio in preghiera.
«Padre nostro che sei nei cieli»
Queste parole sono piene di metafora ebraica. Esse descrivono il rapporto del
discepolo con Dio, ma senza per questo trascurare la relazione famigliare con
Dio.
Il Padre
L’espressione
’abînû (padre nostro) sottolinea che siamo creazione di Dio e che,
come suoi figli, abbiamo una responsabilità verso Lui (Mal 1,6; Dt 32,6). «Nostro»
significa che nessun singolo individuo ha il monopolio di Dio e che, come suoi
discepoli, abbiamo una responsabilità gli uni verso gli altri. La frase «che
sei nei cieli» ci parla delle qualità soprannaturali di Dio. Dio è
onnipotente; egli è in grado di fare tutto quello che vuole (Mt 11,25; Lc
10,21).
La descrizione di Dio come «Padre» non è casuale. La figura del padre aveva un
grande significato nella famiglia ebraica. Il padre aveva un posto d’onore, di
dignità e d’autorità, ma nello stesso tempo era una figura affettuosa e
altruista verso la famiglia.
L’idea che un padre affettuoso deve talvolta rimproverare suo figlio è un tema
comune in molte parabole rabbiniche. Il padre è nello stesso tempo colui che
provvede e che protegge e, sebbene in molte di queste parabole possa sembrare
lontano per l’onore e il rispetto che i suoi figli gli danno, mostra sempre
amore e affetto verso i suoi figli.
L’attenzione particolare che dobbiamo porre nell’espressione «Padre nostro
che sei nei cieli» è sottolineata in altri insegnamenti di Gesù: «Affinché
siate figli del Padre vostro che è nei cieli; poiché Egli fa levare il suo sole
sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti»
(Mt 5,45).
Gesù insegnò ai suoi discepoli a pregare, «Padre
nostro che sei nei cieli», e
ha anche fatto riferimento al «Padre
vostro che è nei cieli».
Tuttavia, quando Gesù parlava di Dio in riferimento a se stesso, egli utilizzava
spesso la notevole espressione di «Padre
mio». L’espressione «Padre
mio», riferita a Dio, è rarissima nella letteratura rabbinica, anche se a volte
ricorre. Questo può significare che essi consideravano cosa abbastanza audace
riferirsi a Dio come «Padre mio».
Condizione di figlio
Ai tempi del Nuovo Testamento, i passi del Vecchio Testamento che
parlano della condizione di «figlio» (2 Sm 7,14; Sal 2,7; 89,26s) venivano
interpretati in senso messianico. L’utilizzo di Gesù dell’espressione «Padre
mio», era certamente un’affermazione messianica. Si riferiva alla sua forte
consapevolezza d’essere il Figlio di Dio. Da ciò possiamo percepire qualcosa
della coscienza di Gesù riguardo la sua univoca missione e il suo speciale
rapporto con Dio.
Forse molti altri hanno pregato «Padre mio». Ma anche se fosse, il fatto che
Gesù abbia insegnato ai suoi discepoli a pregare «Padre
nostro», e che egli ha parlato
anche di «Padre
vostro», suggerisce che l’uso
che Gesù ha fatto di «Padre
mio» indichi una profonda
consapevolezza di se stesso, la sua condizione di Figlio e la sua speciale
missione.
Questa profonda sensibilità che riguarda la sua parentela con il Padre emerge
dalle sue parole ringraziamento: «Ogni cosa m’è stata data in mano dal Padre
mio; e nessuno conosce appieno il Figlio, se non il Padre, e nessuno conosce
appieno il Padre, se non il Figlio e colui al quale il Figlio avrà voluto
rivelarlo» (Mt 11,27; Lc 10,22).
Sul concetto di Dio quale «Padre» cfr. in
Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’Antico Testamento
(Punto°A°Croce, Roma 2002), gli articoli:
«Dio quale padre», pp. 139ss; «Padre», pp. 250s; «Disciplina», pp. 144s.
Sul «Padre nostro» vedi le domande di controllo in Nicola Martella,
Matteo, l’evangelista dei giudei
(Punto°A°Croce, Roma 1999), pp. 17s. Vedi qui nel Dizionarietto finale i
termini: 1) «Preghiera», p. 98; 2) «Padre (Dio, dei credenti, del Messia)», p.
94.
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URL: http://puntoacroce.altervista.org/_BB/A2-Padre_nostro1_Mt.htm
04-02-2007; Aggiornamento: 26-05-2010
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