Le prerogative
per essere un conduttore di chiesa sono molto precise e «pesanti» (1 Tm 3; Tt
1). Certo si presuppone che egli abbia anche il «frutto dello Spirito»
(Gal 5,22s) a monte di tutto ciò. Chi conosce le chiese italiane, sa che non
sempre è così. Non sempre i conduttori hanno tutte le caratteristiche elencate
dall’apostolo Paolo. Sul piano morale si nota, a volte, un alto tasso di
commistione fra carne e spirito. Sul piano pratico non sempre hanno la
saggezza
richiesta, e spesso neppure la conoscenza biblica adeguata. A volte
assomigliano più a degli addomesticatori che a degli allenatori;
ossia sanno solo rimproverare, ammonire e comandare, invece di incoraggiare,
animare e stimolare allo sviluppo.
Nel primo contributo, Argentino Quintavalle, partendo dalla sua esperienza fatta
in alcune chiese, ritiene che a ciò si aggiungano in certi conduttori anche una
certa dose di
altri elementi negativi, quali irriconoscenza, invidia e stoltezza. Sebbene
non si possa e non si debba generalizzare ciò, che egli afferma, rappresenta una
buona base di riflessione e discussione.
Ricevo lettere di lettori, che parlano, con
animi feriti e infelici, del modo come sono stati trattati dai loro
insensibili conduttori. Nel loro sfogo mi danno, a volte, l’impressione
che siano come quegli uccelli, a cui sono state tagliate le penne, per non
permettere loro di volare; e ciò certamente ferisce e umilia chi vorrebbe volare
alto.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1.
{Argentino Quintavalle} ▲
La «riconoscenza»
è un sentimento d’affetto e di gratitudine per un bene ricevuto. La si vede
soprattutto nelle cosiddette piccole cose della vita quotidiana. È un
atteggiamento e si manifesta in tanti modi, dal «grazie», al saluto, alla
«disponibilità», alla cortesia, eccetera.
Essa dovrebbe sgorgare spontaneamente soprattutto nel contesto di chiesa. Chi
non è riconoscente con i propri fratelli, difficilmente lo potrà essere con gli
altri. S’impara a essere riconoscenti, fin da bambini. Riconoscenti in tanti
modi, come il nostro cuore ci suggerisce. Ogni responsabile di chiesa dovrebbe
dare l’esempio e insegnare questo nobile sentimento. Nell’orgoglio e
nell’ipocrisia, però, esso sparisce. L’ipocrita, esteriormente, può far credere
d’essere soddisfatto e forte, ma interiormente è povero, bisognoso, vulnerabile
e sempre sull’orlo della miseria spirituale.
Quando si scade nella mentalità dei «caporali», l’irriconoscente pensa che tutto
gli è dovuto e dimentica il bene ricevuto. Ma la riconoscenza può scaturire solo
da profonde riflessioni su quello che siamo e su ciò che gli altri sono per noi.
Prendere coscienza che, da quando siamo nati, sono molte di più le cose che
abbiamo ricevuto di quelle che abbiamo dato, è importantissimo; eppure per gli
ipocriti l’indifferenza domina sovrana nella propria vita.
L’invidia, l’orgoglio prevaricatore, l’arroganza e l’egoismo sono quasi sempre
il frutto dell’ingratitudine, la quale a sua volta è indice di mancanza di fede,
poiché solo la fede sa riconoscere i benefici ricevuti.
A volte le chiese possono essere amministrate da persone dalle fattezze di
clericali ipocriti, di addomesticatori, di tiranni o di «caporali», le
cui mani s’occupano solo di loro stesse, spiriti dediti al predominio e
all’arbitrio, privi d’ogni forma di comunione; laddove ciò accade, in quel
momento la sacralità e la dignità del fratello vengono sacrificate sull’altare
dell’ingratitudine. Il loro pane quotidiano è l’invidia, e nella Bibbia
l’invidia è associata alla vendetta e alla malvagità. Giuseppe fu perseguitato
dai fratelli perché «erano invidiosi di lui» (Gn 37,11). Gesù fu messo in
croce «per invidia» (Mt 27,18).
Ma gloria a Dio! È meglio non avere certe cose, vivendo con la coscienza a
posto, piuttosto che possedere molto in una situazione di conflitto. È meglio
essere felici, avendo meno, che essere miserabili, possedendo di più. La
mancanza d’amore non paga: prima o poi l’iniquità del «caporale» gli tornerà
addosso come un boomerang. Chi ha cercato di trarre vantaggio a scapito degli
altri, non ne avrà alcun profitto; non è altro che vanità. Se nella chiesa non
c’è amore, non c’è neanche Cristo.
Dalla caduta primordiale in poi, il bene fu confuso con il male; allora l’uomo
lotta per cercare di separare l’uno dall’altro e per distinguere tra saggezza e
stupidità. Ahimè, ci sono chiese condotte da uomini che non sono in grado
d’afferrare la saggezza. È per loro troppo sfuggente, rimane solo la stupidità.
Eppure resto sorpreso perché a volte accade quello che non m’aspetto, una sorte
iniqua: l’immeritato successo dello stolto. Ma il suo successo è destinato a
diventare per lui una trappola.
La cosa importante non è tanto ciò che si è riusciti a ottenere e per quali
azioni verremo ricordati; ma sapere chi siamo veramente. «Chi bada al vento
non seminerà; chi guarda alle nuvole non mieterà» (Ec 11,4). Chi non vuole
essere generoso perché ha paura del vento, allora non seminerà né mieterà per
via di quel timore ridicolo e anche pericoloso, perché può causare una carestia.
La paura d’essere generosi con il fratello, come misura prudenziale per evitare
una perdita, condurrà a perdere tutto.
Purtroppo in queste cose chi ci guadagna è l’avversario (ebr. satan). Se
siamo in 10, egli cerca di metterci magari cinque contro cinque; se siamo in 4,
cerca di metterci due contro due; se siamo in 2, cerca di metterci uno contro
uno; e se siamo in 1, cerca di far sì che la nostra condizione sia peggiore di
quella che ci ha preceduta. C’è tristezza quando i conduttori non si rendono
conto di questo.
2.
{Nicola Berretta} ▲
Nota redazionale:
Visto che anche Nicola Berretta è attualmente un conduttore di chiesa, l’ho
invitato a esprimere il suo punto di vista sulla questione. Dati i suoi impegni
pressanti al momento, ha abbozzato alcune riflessioni e domande, rimandando un
contributo più esauriente a un secondo momento. Le sue domande possono essere
una buona base di discussione. Egli scrive quanto segue.
Caro Nicola, i
punti espressi da Argentino fanno meditare sul compito estremamente delicato dei
conduttori. Chi agisce nei modi espressi da Argentino certamente sta sbagliando.
Il punto però è un altro: come deve comportarsi un credente che si trova in una
chiesa condotta in quel modo? In che modo può sollecitare e aiutare i conduttori
a migliorare il loro ministero? Come può fare questo senza cadere egli stesso
nella carnalità, agendo senza amore e sottomissione? Deve per forza generare
fratture nella chiesa e andarsene altrove, oppure anche isolarsi, pensando a se
steso come all’«ultimo dei moicani», solo e incompreso, in un deserto spirituale
di generale infedeltà al Signore?
Dico questo perché, senza nulla togliere alle responsabilità dei conduttori, di
cui dovranno rendere conto al loro Signore come servi infedeli (Luca 12,41-48),
spesso anche chi subisce queste situazioni diviene responsabile di reazioni
carnali e presuntuose, non dettate dall’amore fraterno. {05-06-2008}
3. {Tonino Mele} ▲
Caro
Nicola, prima d’entrare nel merito delle cose scritte da Argentino, devo
rilevare l’originalità della sua tesi. È la prima volta che sento parlare
d’ingratitudine dei conduttori di chiesa. Normalmente, l’ingratitudine, il
malcontento, ecc. vengono addebitati ai membri di chiesa, i quali, per un motivo
o per l’altro si pongono in una condizione conflittuale verso i conduttori.
Anche se Argentino cerca di dare un connotato generale al suo scritto, non posso
non pensare che le sue considerazioni nascono da qualche vicenda personale da
lui vissuta. Ed è proprio l’originalità della sua tesi che mi fa ritenere
questo. Del resto, anche tu sembri alludere a questo fatto, quando dici
nell’introduzione che egli «parte dalla sua esperienza fatta in alcune chiese».
Personalmente ritengo che esiste certamente, in vari casi, un problema legato al
modo in cui viene gestito l’incarico della conduzione d’una chiesa, tuttavia
esiste anche una percezione del problema, che può essere dettata non da
un’analisi oggettiva della situazione, ma da considerazioni molto soggettive, di
persone che sono parte in causa. Nicola Berretta ha fatto bene iniziando a
registrare l’altra faccia della medaglia e credo che un tema di questo tipo vada
affrontato in questo modo, rilevando le ragioni d’entrambe le parti «in
conflitto». L’analisi del problema va depurata da tutte le distorsioni che
genera una percezione soggettiva e pregiudiziale per giungere a identificare
l’essenza reale del problema stesso. Anche in questo caso esiste una causa più
grande di quella delle «parti in causa», che è quella dell’accertamento della
verità, che prelude al buon andamento delle nostre chiese e all’avanzamento del
regno di Dio..
Nel Nuovo Testamento possiamo trovare esortazioni rivolte sia agli anziani di
chiesa (1 Pt 5,2-3), che ai semplici membri di chiesa (Eb 13,17). Allo stesso
modo, si trovano esortazioni rivolte sia ai mariti che alle mogli, sia ai
genitori che ai figli, sia ai padroni che ai servi; ed è necessario che in tutte
queste situazioni di «naturale conflitto», ognuno, svolga al meglio il proprio
ruolo, anche se si trova nel mezzo d’un problema reale o percepito. Ed è
interessante che in alcune situazioni deprecabili come il marito insubordinato
alla Parola (1 Pt 3,1) o il padrone «difficile» (1 Pt 2,18), l’esortazione del
Nuovo Testamento è quella di continuare a svolgere il proprio dovere, come
«dinanzi a Dio» (v. 19). Questo concetto non nasce da una sorta di stoicismo o
di rassegnazione, ma dalla forte consapevolezza che Dio è sovrano e al controllo
d’ogni situazione, e ognuno di noi dovrà rendere conto a Lui. Una certa parte
dei salmi sono nati da una situazione in cui il salmista [Davide, N.d.R.] era
letteralmente perseguitato dall’unto del Signore «in carica», il re d’Israele
[Saul, N.d.R.]; ed è per questo che, colui che limitava sé stesso e i suoi
soldati dal «mettere le mani addosso… all’unto dell’Eterno» (1 Sm
26,9-11, affidava i suoi sentimenti feriti e la sua sofferenza ingiusta a queste
composizioni, così preziose anche per noi oggi. Certamente, questi sono casi
estremi, che registrano anche reazioni estreme (cfr. i cosiddetti «salmi
d’imprecazione»), ma fanno meditare.
Dalla mia esperienza posso dire che in passato sono stato una delle «parti in
causa», e da un po’ di tempo mi trovo per lo più nella parte opposta: è dunque
molto probabile che gli «errori» che ho visto ieri, sono quelli che faccio io
oggi o farò domani. Bisogna però riconoscere che chi sta in «prima linea» e di
per sé, «davanti a tutti», e quindi più esposto alle critiche, tanto più se,
come talvolta succede, devi «mettere mano» nella vita altrui. Non dimentichiamo
poi che siamo tutti figli dell’individualismo e della privatezza del nostro
tempo, e questo non fa che acuire la conflittualità in oggetto. Insomma, non
esiste solo una «mentalità da caporali», ma anche una «mentalità da ammutinati»,
dove, la chiesa finisce troppo spesso per essere il Bounty [leggendaria nave, in
cui avvenne il famoso ammutinamento, N.d.R.].
Ma non voglio fare una nuova associazione di categoria, la «Conf-Anziani»
contrapposta al «sindacato dei membri di chiesa». Vorrei piuttosto ricordare una
frase molto enigmatica, che Argentino usa nel suo scritto e che, mi pare, scopra
il punto nodale della questione e aiuta a capire meglio situazioni di questo
tipo. La frase è la seguente: «La paura
d’essere
generosi con il fratello, come misura prudenziale per evitare una
perdita, condurrà a perdere tutto». Questa frase mi pare enigmatica, perché
sembra rimandare a una situazione precisa, di cui sarebbe interessante capire
meglio di quale tipo di «generosità» e di quale «perdita» si sta parlando. Per
quel che ne so io, posso dire che spesso, i comportamenti deprecabili della
conduzione, non derivano affatto da una sorta di «inebriamento del potere», ma
esattamente dalla «paura», da una «prudenza» malamente intesa, che rende lo
stesso conduttore una persona quasi diversa da quello che era prima o che è
normalmente, al di fuori dell’«esercizio del suo potere». Così, ha ragione
Argentino nel parlare di «misura prudenziale per evitare una perdita». Se di
«grettezza» si vuol parlare e di mancanza del «frutto dello Spirito», credo che
si debba partire da qui. E ho la vaga impressione che il tutto sia legato a una
certa «sacralizzazione» dell’anzianato, che gonfia perversamente questo senso di
«perdita», generando poi i comportamenti deprecabili in oggetto. E questo vale,
di rimando, anche per le reazioni scomposte dei membri di chiesa. Di questo però
se ne può riparlare. {12-06-2008}
4. {Andrea Viel} ▲
Caro fratello,
mi permetto d’esporre il mio pensiero relativamente ai gretti d’animo. Il tuo
commento introduttivo e l’analisi spietata di Quintavalle (che dire... la
stragrande realtà in effetti) portano a considerazioni direi globali.
In effetti i conduttori gretti hanno avuto giocoforza un passato di pecorelle
del Signore, quindi il loro modo di fare non è un atteggiamento improvvisamente
acquisito insieme con la carica (la chiamata? chissà chi li ha chiamati se sono
così...), ma è stato sviluppato nel tempo, consolidato a volte in una
scuola biblica che ha rafforzato la presunzione, evidenziato alfine nella cura
d’una comunità.
Questo per dire che è troppo facile parlare di conduttori grezzi.
Parlerei di conversioni insincere, di cammino di fede senza fede, d’apparenza
cristiana ma pratica pagana, di santità strillata ma indecenza segreta, di
conoscenza scritturale presuntuosa mancante di misericordia, di giudizio che non
comincia da se stessi.
Condotti così nel tempo, confusi nella incerta pratica cristiana dei più, ci
vuole poco a trovare l’occasione di separarsi, di giudicare, di derubare, di
parlare contro, di «io farei meglio».
Il problema più grande di chi balza al comando, è che non sa che le capacità
positive vengono sfidate, ma le realtà negative e tenute segrete vengono
irresistibilmente messe in evidenza senza ritegno.
Molti dei conduttori di chiesa, non hanno avuto la pazienza di fare il vice per
almeno un paio d’anni accanto al conduttore, anche se non erano completamente
d’accordo con lui. Non hanno imparato ubbidienza, come potranno riceverla
nell’esercizio della conduzione?
Non ricevendola, non portano frutto, e la cosa naturale è dare colpa a loro, le
disgraziate pecorelle che hanno avuto la sfortuna di seguire un pastore che non
è pastore ma che deve convincere tutti che lui è il miglior pastore.
Beh, non voglio spingere troppo. È facile parlare male.
Io non mi farei molte domande sui conduttori grezzi, ma sul livello d’appartenenza
al regno di Dio di coloro che così tanto facilmente si nominano del nome di
Cristo, quello sì.
Scusate se sposto il tiro. Ma una conversione sincera, porta a un cambio di
vita convinto. Magari non avviene tutto in una notte, e neanche dopo cento
notti, ma il cammino va chiaramente in una direzione sicura, fatta di decisioni
sofferte e sincere, evidenziando che sono fonti da cui non esce acqua dolce e
acqua amara, non si chiamano peri e danno mele.
Credenti così sono un esempio e una calamita, attirano simili che
s’identificano nelle lotte e nelle vittorie, formano comunità che crescono
nell’amore, nella fede e nel mutuo soccorso. Il momento che s’evidenzia una
chiamata, vi è l’aiuto comune per la riproduzione, non il dolore della
divisione.
Forse i conduttori cristiani dovrebbero fare sincera autocritica, e
domandarsi perché non si cresce per poter andare e proclamare la buona notizia
in tutto il mondo, e perché il messaggio che le loro chiese danno, non è così
desiderabile da un mondo assetato e affamato di giustizia.
Di sicuro Dio non è in crisi. Il cristianesimo come è concepito a tutt’oggi, per
me, sì. Molte parole, spesso gridate, dichiarazioni e profezie che non hanno
seguito, poche azioni di riferimento, pochi incoraggiamenti a seguire il Signore
essendone un esempio.
Esci per un momento dalla nuvola evangelica e dei conduttori grezzi o meno, e
t’accorgi che nessuno sa né della realtà evangelica, né dei grezzi. Né
dei buoni. Meglio così, dopo tutto. Shabbat Shalom. {11-07-2008}
5. {Nicola Martella} ▲
Mi permetto di
fare solo qualche osservazione a quanto detto sopra da Andrea.
Quanto all’espressione «atteggiamento… consolidato a volte in una scuola
biblica che ha rafforzato la presunzione», faccio presente — come uno che ha
insegnato in una scuola biblica per più di due decenni e ora riceve
continuamente posta per il sito — che la presunzione maggiore che ho trovato è
tra coloro che hanno una
conoscenza superficiale della Bibbia e ne fanno sfoggio in pubblico, dal
pulpito e in rete, supportando il tutto con spiritualizzazioni arbitrarie,
allegorismi tirati dai capelli e versettologie indebite varie. L’arroganza del
saccente è altra cosa ed essa si trova tra ex-studenti di una scuola biblica e
non.
Quanto alla lista da te fatta e che contiene delle verità, non si può
generalizzare, ad esempio quanto alle «conversioni insincere»; ciò
premetterebbe la capacità di guardare nei cuori delle persone, facoltà che non
possediamo. Il problema è perlopiù morale; infatti i credenti evangelici
italiani hanno una dottrina della salvezza biblica, ma in genere una moralità
poco evangelica, ma legata alla religiosità e alla morale dominanti (p.es.
doppia moralità). [►
Il fine giustifica i mezzi?; ►
L’astuzia e la morale; ►
La morale dei cristiani; ►
La pratica della giustizia] Questo è il risultato di vari fattori storici e teologici, ad esempio: la
mancata Riforma protestante in Italia, l’Evangelo a poco prezzo (la colpa è di
chi lo offre!) e la «teologia dell’esperienza» (si mette molta enfasi sui
carismi dello Spirito e poca sul frutto dello Spirito), oltre alla fede quale
spettacolo d’intrattenimento (un fenomeno in espansione).
Il contributo è degno di riflessione e moltissime delle cose sono condivisibili.
Il finale «meglio così, dopo tutto» mostra una rassegnazione. Io
personalmente ho conosciuto tanti uomini di Dio che hanno faticato (o
faticano) nell’opera del Signore e sono stati (o sono) un esempio per gli altri.
Diversi di loro hanno lasciato una
traccia di grazia nella mia vita col loro esempio e la loro abnegazione.
Sono anche grato a coloro che mi hanno «recuperato» in tempi di
sbandamento, nella mia gioventù, e si sono sinceramente interessati di me e del
mio benessere morale; anch'io cerco di fare altrettanto con gli altri. Altri mi
hanno solo turbato con i loro pregiudizi, con la loro falsa autorità, con
la loro finta spiritualità, con il loro abuso di potere, con i loro processi
sommari e con il loro cattivo esempio; questi ultimi hanno lasciato solo
cicatrici doloranti.
Anche in questo tema si può vedere il bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno; è
meglio guardare alla grazia di Dio. Egli non ci ha buttato via con tutta
l’acqua sporca. Egli ha scritto dritto sulle riga storte della nostra vita. Egli
ci chiama ora a essere
noi di esempio e di modello: «Sii d’esempio ai credenti, nel
parlare, nella condotta, nell’amore, nella fede, nella castità» (1 Tm 4,12).
Nota esplicativa: Andrea Viel ha puntualizzato quanto segue: «Grazie per
le tue puntualizzazioni. Condivido le precisazioni, anch'io non sarei arrivato
sin qui se, oltre alla grazia posta su me e che non è stata vana, lungo la
strada non avessi trovato operai del Signore, persone che hanno pregato per me
oltre a quello che si vedeva con gli occhi, insegnanti che hanno tagliato
rettamente la Parola di Dio. Forse di questo si sente la mancanza, forse per
questo mi veniva spontaneo dire alla fine "meglio così". Ma onore a chi si
affatica nell'opera del Signore». {12-07-2008}
6. {Erik Benevolo} ▲
Credo che non
esista al mondo alcuno in grado di realizzare in se stesso il ventaglio di
caratteri dell’anziano secondo il modello biblico di 1 Tim 3 e Tito 1. Se
un tale individuo ci fosse, mi piacerebbe stargli accanto... ma forse questo
accadde solo ai 12 discepoli.
Quindi, che fare? L’uno è accogliente e onesto, ma iracondo; l’altro, pacifico e
serio, ma pigro ed egocentrico; l’altro ancora, fermo nella dottrina e atto a
insegnare, ma incapace d’ascoltare gli altri... che fare? Secondo me la
soluzione non è né di scavalcare il modello, né di rassegnarsi all’ineluttabile
rovina.
Esiste una terza via. Se ogni anziano riconoscesse i suoi limiti, le sue
carenze, il suo peccato abituale; se ne fosse cosciente, e fosse cosciente pure
del fatto che gli altri ne hanno coscienza; se l’ammettesse, come per far
ammenda fin dall’inizio al prossimo peccato che commetterà suo malgrado... e se
su quel punto lì si lasciasse guidare dal Signore, e dagli altri, e consigliare anche da qualsiasi membro della
chiesa (perché non è su quel punto lì che la sua autorità è riconosciuta),
l’anzianato diverrebbe possibile.
Se ogni anziano si mettesse da parte nell’aspetto in cui il suo proprio difetto
gli impedisce di capire o d’agire liberamente, e lasciasse che un altro lo
facesse al posto suo e gliene fosse per giunta riconoscente, tale suo difetto
sparirebbe agli occhi degli altri. Il problema nostro non è la presenza di
difetti, ma la mancanza d’umiltà.
Nella chiesa dei fratelli in cui mi trovo, abbiamo scelto di fare
un’esperienza. L’anzianato s’era dimesso a causa di vecchi problemi interni,
in seguito ai quali una nuova equipe fu creata, diretta per tre anni da una
persona a tempo pieno che aveva già dato prova di concretezza spirituale. Al
termine di questa fase di rilancio, il suo ruolo di responsabile fu soppresso e
sette nomi di fratelli affidabili furono selezionati per un nuovo anzianato
(secondo il principio «sia prima messo alla
prova, poi serva»). Durante i tre anni di rilancio avevamo costruito
insieme una relazione onesta e aperta, perché fin dall’inizio avevamo tutti
insieme sottoscritto un «patto di lealtà» che c’impegnava a non accogliere né
maldicenze né sospetti reciproci, ma al contrario a cogliere in ogni maldicenza
eventuale l’occasione d’approfondire l’argomento con i diretti interessati, e
subito, col fine di mettere parole che impedissero ai silenzi di riempirsi
d’imbarazzo e di carnalità.
Venne il giorno in cui l’anzianato fu costituito: ma prima si presentarsi alla
chiesa, noi sette ci riunimmo insieme nella casa di campagna d’uno di noi, con
le rispettive mogli. Ognuno aveva sette fogli identici: si trattava d’un
questionario con una ventina di punti, espressi sotto forma di caratteri morali
o spirituali da valutare su una scala da 1 a 5 (lo zero era stato omesso per
delicatezza). Ogni foglio aveva un nome, quindi ognuno doveva «pesare» ciascuno
degli altri, soggettivamente, senza favoritismi né colpevolezze inutili, sapendo
che gli altri avrebbero fatto la stessa cosa con lui. I parametri erano tratti
dalle liste di 1 Tim 3 e Tito 1, più alcuni punti importanti come la capacità di
portar la pace in un conflitto, o l’attitudine all’ascolto, o il grado di
realismo dell’interessato (c’è gente talmente spirituale che non ha già più i
piedi in terra...), eccetera. Venti punti da ponderare.
Ognuno, per più di un’ora, solo col Signore, valutò gli altri — e se stesso,
conscio del fatto che gli altri facevano la stessa cosa con lui... e legati dal
patto che ci costringeva alla verità nell’amore e all’amore nella verità. La
valutazione altrui sarebbe stato «il giudizio» espresso su di lui;
l’auto-valutazione sarebbe stata il grado d’autocritica di cui ognuno si sarebbe
visto capace o no; e tutto ciò, in piena luce, a causa della fiducia che ci dava
il fatto d’agire all’interno d’un patto di lealtà. Una volta finito, ognuno
distribuì agli altri la valutazione che lo concerneva e ricevette la sua dalle
mani degli altri, poi ciascuno di noi s’isolò di nuovo per riflettere. Certo
fece a volte un po’ male, ma fu un gran bene.
Finita la presa di coscienza, il passo successivo fu di valutare «la pagella»
insieme alla propria moglie (le quali erano edotte già a evitare frasi come «te
l’ho sempre detto, ma ascolti solo se te lo dicono gli altri...»), poi di
pregare insieme per confessare, e supplicare, e consacrarsi di nuovo nella piena
luce del Signore.
Infine ci ritrovammo tutti insieme, noi sette più le mogli di quelli sposati
(uno era celibe, ora non più), e condividemmo l’esperienza e la presa di
coscienza ricevuta. Fu un momento bellissimo, di cui ognuno di noi serba memoria
malgrado gli anni già trascorsi da allora. Riconoscemmo reciprocamente le nostre
debolezze; chiedemmo aiuto laddove i nostri difetti erano emersi; e accettammo
di metterci da parte quando un altro avrebbe avuto più facilità a effettuare un
compito corrispondente a una qualità che ci mancava.
Da allora l’anzianato avanza, e senza ombre malgrado le difficoltà della vita di
chiesa. I consigli di chiesa sono incontri lieti e utili, perché la paura fu
esorcizzata fin dall’inizio. Nessuno s’aspetta dagli altri una performance
senza errori, perché ci siamo proclamati umani fin dall’inizio, e l’abbiamo
proclamato alla chiesa, ciascuno per se stesso, il giorno del riconoscimento
degli incarichi.
Sì, perché quel giorno, quando la chiesa riconobbe i sette come anziani (da noi
si fa per alzata di mano), ciascuno dichiarò le proprie carenze chiedendo le
preghiere di tutti affinché Dio manifestasse una volta di più la sua potenza e
la sua saggezza nella nostra debolezza e mancanza di conoscenza. Ciascuno ammise
di non saper tutto né di poter tutto, e d’aver bisogno invece di grazia e
comprensione. «Chi di noi è sufficiente a queste
cose?».
Da allora, Dio benedice. Abbiamo dovuto operare decisioni anche dolorose, a
volte, ma il fatto d’arrivare a scelte unanimi senza dover scendere a
compromessi, ha garantito un clima di libertà nella disciplina del discepolo,
che Dio ha onorato con la sua grazia.
Era solo una testimonianza... ma anche se nessuno li conosce (abito in Francia),
tengo a dire che io sono fiero dei miei fratelli, anziani con me e pure amici
concreti e sinceri. E ringrazio il Signore d’averci aperto una via semplice per
vivere in quanto chiesa, a condizione d’accettare il rischio d’amare... e
d’amare in verità. Con sincero affetto… {22-07-2008}
7. {} ▲
8. {} ▲
9. {} ▲
10. {} ▲
11. {} ▲
12. {} ▲
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_TP/T1-Grettezza_conduttori_UnV.htm
29-05-2008; Aggiornamento: 03-07-2010
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