Questo confronto è
nato sulla base dell’articolo
«Bisogna
obbedire ai conduttori?».
Avrebbe dovuto trovare spazio nel corrispondente tema di discussione
tema di discussione,
ma per la sua specificità, ho preferito metterlo a parte, sia per la sua
specificità, sia per la sua lunghezza.
1. {Tonino Mele}
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Ringrazio il fratello che ha iniziato questo dibattito col suo interessante e
stimolante contributo. Tuttavia, temo che la relazione tra anziani e membri di
chiesa non sia riducibile a puntualizzazioni e distinzioni bibliche tra
ubbidienza e sottomissione del figlio piccolo e del figlio adulto.
Pur condividendo che gli anziani non devono abusare
del loro ruolo e non signoreggiare, però bisogna ammettere che i credenti non
sono tutti uguali, ci sono gli adulti e ci sono i bambini, i maturi e gli
immaturi, i forti e i deboli, gli ordinati e i disordinati; e una conduzione
efficace dovrebbe, partendo dalla condizione spirituale di ognuno, impartire
l’adeguato trattamento.
Inoltre, più che definire i contorni della relazione anziani - membri del
gregge, tipico questo di una concezione troppo istituzionalizzata di questo
ruolo, meglio sarebbe iscrivere questa relazione nell’ambito pneumatico,
in cui il NT la pone. Non è un caso che gli anziani sono costituiti tali dallo
Spirito Santo (At 20,28); ed è lo Spirito Santo che dà i «doni di governo»
(1 Cor 12,28). Così in un capitolo importante per la vita della chiesa come
Efesini 4, dove si parla sia delle guide della chiesa che del contributo di ogni
singola parte, si fonda sullo sforzo e la responsabilità di ognuno di «conservare
l’unità
dello Spirito col vincolo della pace» (v.3).
Questo è il cuore della questione: Si è ridotta questa relazione a un
gioco tra le parti, dove pare più importante stabilire le regole del gioco,
anziché collocare questa relazione in quell’ambito, che la trascende, ma che
pure la libera da quelle logiche umane, che la stanno facendo naufragare.
Distinguere tra sottomissione e ubbidienza
non giova, come non giova distinguere tra sottomissione e consentimento («mi
sottometto, anche se non condivido le vostre scelte»), perché a lungo andare
queste distinzioni portano a una sottomissione di facciata, priva di quella
vera fiducia, che invece dovrebbe esistere tra anziani e membri del gregge.
L’espressione «unità dello Spirito», che a mio avviso rispecchia quella
tanto usata negli Atti di «pari consentimento», temo che non lasci spazio a
distinzioni come quelle menzionate, ma le inglobi come facce della stessa
medaglia.
Non credo dunque che una conduzione efficace debba accontentarsi di una
sottomissione senza ubbidienza o senza consentimento, ma debba mirare a
questa unità dello Spirito, e rappresentarla con coraggio dinanzi ai più
riottosi. {21-02-2014}
2. {Nicola
Martella}
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Nelle chiese ci
sono certamente conduttori costituiti tali dallo Spirito Santo (At 20,28)
e, se è così, quando vengono riconosciuti, posseggono i requisiti
prescritti (1 Tm 3; Tt 1). Tuttavia, ho potuto fare l’esperienza personale sul
campo in molti decenni nelle chiese, oltre a quella fatta con la cura pastorale
e con il confronto diretto e col carteggio con conduttori e membri di comunità.
Tutto ciò m’insegna che le cose non stanno così idillicamente, poiché ci
sono conduttori insediati, nonostante che lo Spirito Santo non li abbia
costituiti (i frutti mostrano l’albero) e nonostante che non abbiano i
prerequisiti per ambire a tale ministero. Abbiamo già parlato altrove di tali «anziani
di paglia», che biblicizzano la loro carne, signoreggiano le chiese, portano
scompiglio nella conduzione e così via.
Il modello di conduttore ce lo presenta Dio stesso, in contrasto con le
pessime guide d’Israele, che signoreggiavano sulle anime e scorticavano i miseri
(cfr. Ez 34,6-11), quando Egli mostra la sua cura per i più deboli: «Come
un pastore, egli pascerà il suo gregge; raccoglierà gli agnelli in
braccio, se li porterà sul petto, e condurrà pian piano le pecore che allattano»
(Is 40,11; cfr. Sal 23). A tale immagine s’ispirò poi Pietro (cfr. 1 Pt 5,1ss).
E ancora: «Io stesso pascerò le mie pecore, e io stesso le farò
riposare, dice il Signore, l’Eterno. Io cercherò la perduta, ricondurrò la
smarrita, fascerò la ferita, fortificherò la malata... io le pascerò con
giustizia» (Ez 34,15s; cfr. vv. 12ss; cfr. vv. 23s il nuovo Davide).
Nel nuovo patto, il rapporto di fiducia fra il «buon Pastore» Gesù e le
sue pecore fu descritto così: «Le mie pecore ascoltano la mia voce, e io le
conosco, ed esse mi seguono» (Gv 10,27). Quindi, qui ci sono la cura
del pastore e il rapporto di fiducia fra Lui e le sue pecore. Per questo
Gesù disse a Pietro: «Pasci le mie
pecore» (Gv 21,17); le pecore sono del Signore e il servitore deve pascerle
(= portarle al pascolo), non dominarle. Anche Pietro stesso raccomandò ai
conduttori: «Pascete il gregge di
Dio, che è fra voi» (1 Pt 5,2); esso è di Dio e non ci dev’essere
spazio per signoreggiare, anche perché l’Arci-Pastore rimane Cristo, ed è
a Lui che bisogna rendere conto (v. 4).
A ciò si aggiunga che l’analisi esegetica dei brani del NT, che parlano
del rapporto fra conduttori e membri, non è un’attività inutile e infruttuosa,
altrimenti apriremmo porte e finestre all’arbitrio e al soggettivismo d’ognuno.
Proprio coloro, che si appellano allo Spirito Santo e all’aspetto pneumatico,
possono porsi dinanzi all’assemblea come intoccabili «unti dell’Eterno».
3. {Tonino Mele}
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Anch’io penso «che le cose non stanno così
idillicamente», e proprio per questo diffido di certe distinzioni, che non vanno
al cuore del problema reale. Questo mi pare fosse il tema. Il tuo intervento
introduce una variazione sul tema: il caso di una conduzione non qualificata.
Ma anche in tal caso mi chiedo che senso abbia distinguere tra
sottomissione e ubbidienza? Non si finisce per disattendere il nocciolo
della questione? E viceversa, se la conduzione è qualificata, che problema
c’è a sottomettersi e ubbidire? {21-02-2014}
4. {Nicola
Martella}
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La questione sta in questo fatto: chiede mai
la Scrittura espressamente che i membri dell’assemblea ubbidiscano ai loro
conduttori, usando il verbo hypakū́ō «ubbidire»? La risposta è:
«No». L’altra questione è se nel NT greco esista un
chiaro comando simile, in cui venga usato il verbo hypotássō: «Siate
sottomessi ai vostri conduttori!». Anche qui la risposta è: «No».
Quindi, i conduttori fanno bene a non chiedere l’ubbidienza ai membri
della loro comunità, come farebbe un padre a un figlio minorenne (Ef 6,1
+ Col 3,20 tékna «minori, fanciulli») o un padrone a un dipendente
(Ef 6,5 + Col 3,22 dũloi «schiavi, servi»). Similmente le guide di
un’assemblea farebbero bene a non chiedere la sottomissione, come un marito si
auspica da una moglie. Che cosa chiede allora Dio dai membri di un’assemblea
verso i loro conduttori? Questo: «Dare retta [fiducia, o
credito] ai vostri conduttori e siate arrendevoli!» (Eb 13,17). Questo è
comandato e questo vogliamo consigliare che si faccia. Come mostra il primo
verbo usato, peíthō, si tratta soprattutto di «persuadere,
convincere, fidarsi, confidare», ecc. Il secondo verbo è hypeikō
«cedere, arrendersi». Ambedue si basano su un rapporto interpersonale di
fiducia e sulla capacità persuasiva dei conduttori, cose conquistate
sul campo, non su un comando perentorio dato in grazia di un ufficio rivestito.
Mi sembra una differenza sostanziale.
5. {Tonino Mele}
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Grazie, caro
fratello, ora mi è più chiaro ciò che vuoi dire e non posso dire che non
sia condivisibile. Ma, per alimentare il dibattito e capire se questa è la
parola conclusiva che si possa dire su questo argomento, vorrei porti alcune
domande:
■ 1. Pensi veramente che gli autori biblici volessero fare una differenza
tra ubbidienza e ubbidienza, non usando il termine hypakū́ō?
■ 2. Pensi che il non uso del termine suddetto giustifichi una tale
differenza nel concetto di ubbidienza?
■ 3. Non e invece possibile che in una tale distinzione influiscano le
esperienze
negative fatte e il bisogno di avere una sorta di «ubbidienza con riserva»,
una sorta di meccanismo di difesa contro una conduzione non qualificata?
■ 4. Se così fosse, sarebbe veramente questa la soluzione migliore? Non sarebbe
meglio in questi casi parlare di semplice e coraggiosa disubbidienza?
■ 5. Nei casi invece di conduzione qualificata, che problema c’è verso una
ubbidienza senza distinzioni, quando l’oggetto dell’ubbidienza è giusto?
■ 6. E soprattutto, oltre il non uso del termine hypakū́ō per definire
l’ubbidienza agli anziani, si possono addurre altri argomenti biblici che
giustifichino la tesi in discussione?
Per inciso vorrei
dire che tale tesi non mi dispiace, perché non solo deresponsabilizza
la chiesa da un certo tipo di sottomissione, ma deresponsabilizza anche i
conduttori da un certo tipo di conduzione, creando quelle riserve e quelle
autonomie, di cui temo se ne avvantaggi non solo la chiesa ma gli stessi
conduttori. È evidente che se modifichiamo il termine iniziale di Ebrei 13,17
(«ubbidite»), si modifica anche il termine finale della frase («rendere conto»).
Ma era veramente questo l’intendimento dell’autore ispirato? Veramente
prospettava un rapporto pieno di riserve tra la chiesa e le sue guide? È in
questo senso che devo intendere le espressioni bibliche di «unità dello Spirito»
e «pari consentimento»?
Per me questa è una domanda più che teorica e mi piacerebbe, se possibile, avere
una risposta, che non si limiti al semplice non uso del termine hypakū́ō.
{22-02-2014}
6. {Nicola
Martella}
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Non posso certo
scrivere un trattato teologico, per rispondere a tutte queste questioni!
J
Faccio una breve premessa. Da un’analisi attenta del NT greco si evince che mai
si richiede espressamente dai membri di un’assemblea che essi siano
sottomessi agli anziani e che ubbidiscano loro. Tuttavia, all’interno
di un clima fiduciario, la sottomissione volontaria si può dedurre da
altri brani generali, che trattano il rapporto dei più giovani (neṓteroi)
verso i più anziani nella fede (presbýteroi;
1 Pt 5,5), come pure dalla richiesta che si
riconosca pubblicamente coloro, che collaborano nell’opera come servitori (1
Cor 16,16). Laddove si crea un clima di
sottomissione (Ef 5,21) e di stima reciproche (Fil 2,3), i credenti sono
disposti a riconoscere agli altri fratelli la grazia operativa, il ruolo
e il ministero, che Dio ha assegnato a ognuno (cfr. Gal 2,9).
Tale distinzione è importante e giova senz’altro a ristabilire i binari
scritturali della questione. L’ubbidienza si chiede ai figli dai
genitori, agli schiavi dai padroni, ai cittadini dalle autorità, eccetera. Essa
non si deve chiedere alle mogli dai mariti, né ai membri di chiesa dai
conduttori; qui vige la sottomissione (ossia il rispetto) e il pari
consentimento all’interno di un rapporto fiduciario. Prendendo il caso dei
coniugi, anche la sottomissione è
prima reciproca sul piano spirituale (Ef 5,21 lett.
«essendo sottoposti gli uni agli altri nel timore
dell’Unto») e poi specifica sul piano gestionale (v. 22 lett.
«Le donne: [siano sottoposte] ai propri uomini,
come al Signore»; qui il verbo
manca del tutto perché premesso dal v. 21). Ora, come abbiamo visto, nel
rapporto fra conduttori e membri di chiesa manca addirittura un comandamento
specifico, che ingiunga a essere sottomessi ai
propri conduttori; il Marito dell’Assemblea è l’Unto, ed è primariamente
a Lui che essa dev’essere sottomessa. Quindi, i
rapporti fra conduttori e membri erano regolati diversamente al tempo del
NT.
Ora, passo a rispondere secondo la sovrastante numerazione.
■ 1. Sì, penso che gli autori biblici volessero fare una differenza fra
ubbidire e «dare retta» (o lasciarsi persuadere). Ogni sottomissione
(hypotássō) nella famiglia di Dio (come abbiamo appena visto
quella della donna al proprio uomo) è preceduta da quella reciproca, senza
esclusione (Ef 5,21s) e dalla richiesta di umiltà degli uni verso gli
altri (1 Pt 5,5). Mentre ai figli e ai servi si
comanda, ai fratelli no; questi ultimi devono essere persuasi all’interno
di un rapporto di fiducia.
■ 2. Fino a prova contraria, sono convinto di sì: gli scrittori del NT
distinguevano
fra sottomissione e ubbidienza, visto che alle ad esempio mogli viene richiesta
la prima, ma non la seconda. Nell’assemblea, la prima è tutt’al più volontaria,
mentre la seconda non può e non dev’essere imposta, se non si vuole creare un
nuovo clericalismo. Meglio ancora è quando i conduttori convincono! Gli
scrittori del NT sapevano molto bene della tendenza umana a signoreggiare (cfr.
1 Pt 5,1ss) e furono menzionati anche casi concreti (2 Cor 11-12 i
«super-apostoli» giudaici di stampo esoterico; 3 Gv Diotrefe).
■ 3. Penso che le esperienze negative per un esegeta non contino più di tanto; a
lui interessa la verità scritturale, quale essa sia. Io stesso sono stato
usato dal Signore per fondare chiese e sono attualmente il conduttore di una. Il
mio stile di conduzione è partecipativo rispetto ai collaboratori, e verso la
chiesa si basa sul rapporto fiduciario e di convincimento biblico. Quindi
pratico ciò, che affermo, perché scritturalmente convinto.
■ 4. Da noi non abbiamo «anziani di paglia», visto che, essendo
l’assemblea in una fase missionaria, siamo intenzionati a riconoscere, un
giorno, solo quei fratelli, che saranno irreprensibili e corrisponderanno ai
prerequisiti richiesti. La Scrittura non usa all’interno dell’assemblea
concetti come una «coraggiosa disubbidienza», ma parla di «pari
consentimento» e di «unità dello Spirito col vincolo della pace», il tutto
basato (oltre che sull’amore e stima reciproci) su un processo di
accertamento della verità
biblica mediante lo studio comune della Scrittura. Una «coraggiosa
disubbidienza» è contemplata verso le autorità esterne (At 4,19; 5,29);
verso gli intrusi è contemplata la resistenza (Gal 2,4s); verso i
colleghi devianti e condannabili al momento, se non c’è altra via, bisogna
prendere una ferma posizione (Gal 2,11ss).
Verso i
membri della propria assemblea i conduttori devono puntare sulla
volontarietà all’interno di una rapporto fiduciario basato sulla cura (cfr.
1 Pt 5,1ss). Poi ci sono casi estremi, in cui ci sono disordinati e
ribelli, ma anche qui dev’essere la Parola ad ammonirli e convincerli
all’interno di un’intesa comunitaria (1 Ts 5,14 «fratelli»).
Dove ciò non dà i risultati sperati, bisogna ritirarsi dai disordinati
sulla base di un convincimento comune (2 Ts 3,6) e degli esempi ricevuti (v. 7;
cfr. v. 11).
Anche qui il missionario Timoteo (in seguito sarebbe stato il conduttore a
farlo) doveva comportarsi così: «Predica la Parola, insisti a
tempo e fuor di
tempo, riprendi, sgrida, esorta con grande pazienza e sempre istruendo»
(2 Tm 4,2); tali elementi devono stare sempre insieme (cfr. 1 Tm 5,1s
dapprima esortare, non riprendere!; cfr. v. 20 poi…; cfr. Tt 1,13). Centrale in
ciò è la Scrittura ispirata (2 Tm 3,16). Per il missionario Tito
insegnare, esortare e riprendere con ogni autorità (quella che proviene
dalla Scrittura e porta a essa!) devono sempre stare insieme (Tt 2,15).
■ 5. Non trovo nella Scrittura una «ubbidienza senza distinzioni», ma
laddove si parla di ubbidienza viene aggiunto «nel Signore» o simili locuzioni
(cfr.
Ef 6,1). Inoltre, se qualcosa non è
chiaramente contemplata dalla Scrittura, è meglio non reclamarla. Così si
rimane scritturalmente sani. All’interno della sottomissione reciproca fra
fratelli, sebbene una sottomissione specifica dei credenti ai conduttori non
venga mai ingiunta esplicitamente, essa è pensabile in senso volontario
all’interno di un rapporto di reciproca stima e fiducia; tuttavia, è mai
prescritta una cieca ubbidienza, ma un volontario «dare retta» (fiducia,
credito) e una «arrendevolezza» all’interno di un rapporto fiduciario (Eb 13,17
greco). Nessun conduttore deve «pretendere» l’ubbidienza! Ciò sarebbe arbitrio.
■ 6. L’assenza del verbo hypakū́ō mi sembra un grande argomento,
come pure il fatto che tutto il NT non ingiunga mai chiaramente l’ubbidienza
assoluta (ma neppure relativa mancando il termine) dei membri ai propri
conduttori. I conduttori non sono né genitori di figli minorenni né
padroni di servitori, né generali di una milizia, ma servitori, che
pasturano e curano il gregge del Signore. Inoltre, come abbiamo visto, Pietro
evidenziò la
volontarietà di chi guida e di chi è guidato, che escluda l’abuso
del signoreggiare e dello sfruttamento economico (i «super-apostoli» di Corinto
facevano proprio questo!). Il verbo «pascere» quale attività maggiore dei
conduttori e la loro designazione come «pastori» (= pasturanti) sotto il «sommo
Pastore» e «sorveglianti» (non proprietari) mi sembrano grandi argomenti.
L’esegeta accerta ciò, che c’è, non ciò che vorrebbe vedere; non adegua la
Scrittura ai propri gusti, ma si adegua a essa.
Inoltre, nelle
lettere il continuo riferimento non è specificamente agli anziani, ma
generalmente ai «fratelli», a cui si fa appello per i molteplici aspetti
dottrinali, spirituali e morali, mostra che l’ultima istanza è localmente
l’intera assemblea, non i soli conduttori, che essa riconosce per gestire
aspetti particolari dell’opera e depone, quando vengono a mancare le qualità o
quando si macchiano d’infedeltà.
I rapporti fra conduttori e membri non si basano su un «ufficio»
ricevuto, che crea intoccabili «unti del Signore», spesso a vita, a cui si deve
assoluta ubbidienza; ma essi si fondano su un clima di fiducia e stima
reciproche, sull’essere sottomessi fraternamente gli uni agli altri e
specialmente al Signore e alla sua Parola. È tale «vincolo (= patto) di
pace» a garantire l’unità spirituale localmente. Effettivamente, nelle cose
bisogna cercare il «pari consentimento» sulla base dell’analisi scritturale
comune, invece d’imporre le cose dall’alto, per una falsa pretesa di autorità.
L’autorità
ce la dà la Parola; quando la tagliamo rettamente, ci porta a essere
irreprensibili, e con essa convinciamo gli altri.
7. {Tonino Mele}
▲
Grazie per la tua
puntuale risposta, «conclusiva» come l’avevo chiesta, anche perché il tempo per
leggere tutta la questione e formulare domande adeguate, con beneficio (spero)
anche dei nostri lettori, non è stato poco.
Condivido l’ideale di conduzione avulso da ogni forma di autoritarismo,
signoreggiamento, che tratta la chiesa come un figlio minore o come un plotone
da comandare; e credo anch’io in un rapporto basato sulla fiducia
reciproca e su un reale coinvolgimento della chiesa fedele, matura ed
equipaggiata dallo Spirito Santo alle attività e alle decisioni ecclesiali.
Resto perplesso sul concetto che «l’ultima istanza è localmente l’intera
assemblea», ma non sentirti obbligato a rispondermi, anche perché è una
variazione sul tema, che può essere trattato in apposita discussione, se e
quando altri lettori lo vorranno. {22-02-2014}
8. {Nicola
Martella}
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Quest’ultimo
argomento è qui fuori tema. Se l’affrontassi, tutta la discussione dei
lettori ne sarebbe polarizzata. Mi ripropongo di affrontare tale tema a sé. Qui
formulo solo alcune domande per la riflessione: ▪ 1. Chi elegge le guide
nella chiesa locale? ▪ 2. Chi depone le guide della chiesa locale in caso di
infedeltà? ▪ 3. Chi è chiamato a intervenire in fatti di immoralità e a mettere
fuori comunione i membri infedeli e impenitenti? ▪ 4. In casi controversi qual è
l’ultima istanza prevista da Gesù? ▪ 5. Chi dà incarichi e manda dei membri in
missione? ▪ 6. A chi furono inviate normalmente le epistole del NT? E così via.
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_TP/A1-Sottom_obbed_Avv.htm
06-03-2014; Aggiornamento: |