La serie di articoli, raggruppati sotto il link «Stato intermedio e sonno dell’anima» {Nicola Martella - Argentino
Quintavalle}, ha suscitato l'interesse di alcuni lettori. Ricordiamo che con
l'espressione «stato intermedio» si intende il periodo tra la morte e la risurrezione della carne.
I «distruzionisti» credono che alla morte l'intero essere venga annientato
(avventisti, teologi liberali, Torre di Guardia). Gli «spiritualisti» credono
che i morti non solo continuano a esistere, ma che ottengano subito il premio e
siano subito efficienti nel servire Dio in cielo (spiritualisti cattolici e
protestanti, darbisti, platonismo cristianizzato). Secondo noi, invece, gli
spiriti dei morti vanno in Paradiso (luogo diverso dal «cielo», dove risiede
la corte celeste), dove aspettano (coscienti ma non storicamente efficienti) la
risurrezione della carne. È interessante notare che mai viene detto che
gli spiriti debbano risuscitare, ma sempre i corpi o la carne.
Ora, Daniele Bastari, un credente avventista, ha preso il coraggio di presentare
il suo punto di vista (ossia quello avventista) su alcuni aspetti di questo.
Certamente ciò non mancherà di suscitare un dialogo tra le parti interessate e,
speriamo, anche con altri credenti.
Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre
esperienze, idee e opinioni?
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1. {Daniele
Bastari} ▲
Caro Nicola, pensavo di rispondere parola per parola
al vostro scritto, ma poi ho pensato di condividere con te ciò che penso sullo
stato intermedio dei defunti in termini più generali. È proprio simpatico
assistere a questa bella diatriba fra amici, tu e Argentino che non si
risparmiano epiteti inoffensivi, senza esclusione di colpi. Il problema che
affrontate in questa pagina mi ha coinvolto per circa una trentina d’anni e, pur
non avendo la certezza d’averlo definitivamente risolto, penso d’averne una
inquadratura più chiara rispetto a trent’anni fa. Lo imposterei come segue.
■ 1.
Il quadro di riferimento del pensiero ebraico nei due
testamenti: Il monoteismo biblico si
ripercuote sull’antropologia biblica con il monismo antropologico: l’uomo è
un’unità antropologica inscindibile. Genesi 2,7 ci ricorda che l’uomo
è anima e non ha un’anima. Quando utilizziamo la parola anima
(eb. nepheš, gr. psyché) ricordiamoci che il pensiero ebraico si
differenzia totalmente da quello greco. Rubo a Gianfranco Ravasi, noto biblista
cattolico un lungo brano dove emergono alcune citazioni tratte da opere
autorevoli sul soggetto: innanzitutto egli afferma che «per le voci di
dizionario, è d’obbligo riferirsi alla sterminata trattazione di psyché
del Grande Lessico del Nuovo Testamento, che occupa 160 colonne e
coinvolge cinque esegeti d’indubbio prestigio. Gli esiti, comunque, sono
analoghi e vengono solitamente siglati con una locuzione divenuta ormai popolare
anche nei testi divulgativi: la Bibbia presenta un’«unità psicofisica» che non
ammette le ben note distinzioni più o meno «dualistiche» della tradizione greca
tra anima e corpo.
Per ricorrere a una
formulazione più articolata, citiamo qualche riga della famosa Semantica del
linguaggio biblico di James Barr: «Secondo il pensiero greco nell’uomo vi è
dicotomìa un’anima immateriale imprigionata o confinata in un corpo mortale; i
due elementi sono in rapporto reciproco solo in maniera temporanea e
accidentale. Secondo il pensiero ebraico, l’anima non è altro che la persona
umana in quanto vivente nella sua carne. Anima e carne non sono fra di loro
separabili, ma questa è la manifestazione esterna e visibile dell’altra. Non c’è
pertanto nel mondo ebraico alcuna idea dell’anima che possa vivere
indipendentemente dal corpo».
Claude Tresmontant nel suo libro
Il problema dell’anima edizioni Paoline, afferma: «Intendiamo esporre
qui, tra i momenti principali della storia del concetto d’anima, l’originalità
dell’antropologia ebraica e la nozione ebraica d’anima. È quest’infatti che
passa nel Nuovo Testamento greco costituendo la base dell’antropologia
cristiana. Esiste in ebraico una parola,
néfeš, che viene tradotta in greco psyché e in latino anima.
Il maggior errore e la peggior illusione consiste nel ritenere che si possa
passare da un universo di pensiero a un altro, stabilendo semplicemente una
corrispondenza linguistica tra due termini che in realtà non hanno lo stesso
significato. L’illusione consiste nell’immaginarsi che l’analogia verbale che
risulta semplicemente dalla traduzione, ricopra un’analogia reale. Dato che la
Bibbia ebraica comporta un termine, tradotto in greco con psyché e in
latino anima, si pensò di poter ragionare su ciò che la Bibbia chiama
anima, allo stesso modo di come si ragiona su quello che intendono Platone,
Plotino o Cartesio. Fu un grave errore. Sotto l’identità del termine, le
differenze di contenuto sono radicali».
Per il pensiero biblico
quindi alla morte non muore il corpo (termine che in ebraico non esiste), ma
l’anima, cioè l’essere umano nella sua totalità. L’uomo fu creato come essere
corporeo e per lui non esiste altro modo d’essere se non nella corporeità.
Questa è la creazione di Dio e così sarà anche nella palingenesi. L’uomo vive
oggi e potrà vivere alla resurrezione come essere corporeo. La fede biblica è la
fede più materialista di tutte le fedi, perché s’occupa della salvezza di tutto
l’essere umano e non d’una sola parte d’esso.
Quando leggo questi testi di
biblisti cattolici che per affermare ciò che affermano devono essere prima
passati sui loro cadaveri di teologi impregnati di filosofia neoplatonica e
teologia scolastica, resto allibito che teologi evangelici non hanno lo stesso
coraggio di distaccarsi dalla «santa tradizione evangelicale».
La sincerità estrema del
biblista cattolico G. Battista Mondin che afferma che l’unica ragione che non
permette alla chiesa cattolica d’accettare l’antropologia biblica è la
mariologia, apre ampi varchi di dialogo, perché è la confessione che a livello
biblico non è possibile sostenere l’insegnamento dell’immortalità dell’anima,
che viene mantenuto nel cattolicesimo per ragioni che riguardano la devozione
mariana e non l’ermeneutica biblica.
Nell’ambito evangelico chi
non crede allo stato intermedio cosciente viene marchiato col sospetto d’eresia;
John Stott il famoso teologo evangelico pervenuto alla convinzione dello stato
d’incoscienza dei defunti in attesa della resurrezione, affrontò notevoli
difficoltà per essere accettato come teologo evangelico.
L’attuale stato della
questione è la seguente: i teologi riformati europei condividono con i teologi
cattolici la certezza che nella Bibbia non s’accenna minimamente alla dottrina
della sopravvivenza dell’anima dopo la morte.
Nella Bibbia l’aggettivo
immortale non è mai usato per qualificare il sostantivo anima.
■ 2.
Il quadro dell’antropologia ebraica nel periodo
intertestamentario: Nel periodo
intertestamentario, a causa d’una ellenizzazione forzata d’Israele, questo
quadro chiaro dell’antropologia biblica subì forti adulterazioni, che è
possibile osservare in alcuni testi apocrifi o deuterocanonici.
Nel libro dei Maccabei viene
presentata come una prassi ordinaria la preghiera per i morti in battaglia,
mentre nel Siracide si presenta il fatto che avere un bel corpo nella vita
terrena è da considerarsi come un premio per una retta vita precedentemente
vissuta. Da questi soli due testi non canonici s’evince che sia la credenza
nella metempsicosi che il bisogno d’intercedere per i morti non furono mai
accettati dalla fede ortodossa d’Israele, ma facevano comunque parte d’un
soffuso modo di pensare del popolo, un po’ come oggi, anche fra i cattolici c’è
chi crede alla reincarnazione.
Il profeta Daniele, l’ultimo
autore canonico dell’Antico Testamento a parlare dell’aldilà, manifesta la sua
fede nella resurrezione di coloro che dormono nella polvere (Dan 12) e
non nella sopravvivenza dei defunti.
■ 3.
Conclusione:
Tenuto conto dell’inamovibile fondamento dell’antropologia biblica, le
interpretazioni possibilistiche dei singoli testi apparentemente in
contraddizione con questo quadro così chiaro, lasciano il tempo che trovano.
Ricordo soltanto che in soli
due testi Paolo parla in maniera chiara e specifica della sorte dei defunti, in
1 Cor 15 e in 2 Ts 4,16ss e non lascia adito alla minima perplessità in merito.
Non fa elucubrazioni sullo stato intermedio e non possiamo servirci d’altri
testi di Paolo in cui egli parla d’aspirazione o desiderio d’essere con il
Signore, senza minimamente pretendere di definire né il come né il quando.
Dove la Bibbia tace è bene
che tacciamo anche noi. Fu il venir meno dell’attesa escatologica a far
penetrare nella chiesa cristiana la speranza d’una rimunerazione immediata
subito dopo la morte.
Se pensi d’aprire un dialogo
su un singolo testo alla volta fra quelli citati da Argentino, potrebbe essere
interessante. Un caro saluto e un sincero apprezzamento per il tuo ministero.
Con affetto.
2.
{Nicola Martella} ▲
Ringrazio Daniele Bastari di averci presentato il
punto di vista avventista dello «stato intermedio», ossia della non-esistenza
degli esseri morti fino alla risurrezione. Chiaramente non bisogna per forza
condividerlo. Invece di dare una risposta, come coordinatore del sito mi limito
a porre una serie di domande e osservazioni che possono aiutare il lettore a
orientarsi nella discussione.
È corretto questo quadro
antropologico dell’autore precedente dal punto di vista teologico ed esegetico?
Basta fare un corollario di citazioni di autori a proprio favore per ritenere
assodato il risultato? (Si può fare lo stesso per tesi contrapposte!). Ha detto
lo scrittore umoristico israeliano Kishon: «Per esempio non è un argomento». La
descrizione fatta dall’autore precedente non è riduttiva rispetto alla vasta
portata del fenomeno nell’AT e nel NT? Come mai gli autori avventisti parlano
dell’«anima», ma trascurano i vari brani in cui si parla dello «spirito» nel
momento della morte e dopo di essa? Se la rimunerazione immediata subito dopo la
morte è una dottrina sbagliata (i morti vanno nel Paradiso e attendono lì la
risurrezione; cfr. Lc 16), invalida già questo l’esistenza personale dopo la
morte? Perché è importante distinguere nella Bibbia i brani funzionali (anima,
spirito, cuore, ecc. sono funzioni dell’essere) da quelli costitutivi (qui
l’uomo viene creato da due essenze di base o si scompone alla morte nelle sue
due essenze di base)? Era Gesù un dualista, quando parlava di (uccidere) corpo e
anima? I discepoli avevano le traveggole, quando sul monte della trasfigurazione
videro Mosè (morto) ed Elia (rapito)? Gesù aveva anche sbagliato a rivelare che
Abramo e Lazzaro si trovavano nel luogo di godimento (Paradiso), mentre il ricco
si trovava subito dopo la morte nell'Ades? (Lc 16). Gesù aveva fatto una falsa
promessa al ladrone in croce che quello stesso giorno sarebbe stato con lui in
Paradiso? Gesù aveva sbagliato a rimettere il suo «spirito» nelle mani del
Padre? Sbagliò anche Stefano quando rimise il suo spirito nelle mani di Gesù.
Era Paolo un dualista greco, quando parlava di «uomo interiore» e «uomo
esteriore» o usava espressioni simili riferendosi alle due essenze di base
dell’uomo? Erano solo «simboliche» le anime (= persone) già risuscitate dei
martiri, che Giovanni, essendo in cielo, vide e udì al di sotto dell’altare e
che furono rivestite di una veste? (Ap 6,9ss).
Per lo studio dell’antropologia biblica cfr. in Nicola Martella,
Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma 2002), gli articoli: «Antropologia 1: Specie e
genere», pp. 86s; «Antropologia 2: Globalità dell’essere», pp. 87ss;
«Antropologia 3: I componenti principali», pp. 89s; «Antropologia 4: Funzioni
principali», pp. 90ss. |
3.
{Argentino Quintavalle} ▲
Partendo da una ipotesi, facendo dei
ragionamenti logici s’arriva a una tesi. Il ragionamento di Daniele Bastari è
più che logico e apprezzabile, ma la sua debolezza si trova nell’ipotesi di
partenza. Citando James Barr egli dice: «Non c’è pertanto nel mondo ebraico
alcuna idea dell’anima che possa vivere indipendentemente dal corpo».
Probabilmente James Barr avrà detto tante cose giuste, ma qui è andato
completamente fuori strada. L’ebraismo (sia quell’ortodosso che quello
chassidico) sostiene nella maniera più assoluta che l’anima umana sopravvive
alla morte fisica. Prima di proseguire, però, voglio precisare che mentre noi
distinguiamo tra l’ebraismo dell’Antico Testamento, quello tra i due Testamenti
e quello del Nuovo Testamento, gli Ebrei distinguono solamente tra il periodo
del Primo Tempio e il periodo del Secondo Tempio. Non c’è una superiorità
dell’uno sull’altro, poiché la differenza è essenzialmente storica più che
teologica. La mentalità occidentale tende a tracciare delle linee di
demarcazione molto nette del tipo: nell’Antico Testamento si pensava così, tra i
due Testamenti si pensava cosà. Gli Ebrei invece hanno una continuità di
pensiero molto simile a quello che noi in teologia chiamiamo «rivelazione
progressiva».
Fatta questa premessa,
c’è molto materiale rabbinico che descrive ciò che accade all’anima dopo la
morte. Essi sostengono che la Tanakh (Bibbia ebraica) parla di numerose persone
che vengono «riunite al suo popolo». Vedi per esempio Gn 25,8
(Abrahamo), 25,17 (Ismaele), 35,29 (Isacco), 49,33 (Giacobbe), Dt 32,50 (Mosè e
Aaronne), 2 Re 22,20 (Giosia). Questa «riunione» viene vista come un evento
diverso dalla morte fisica del corpo o dalla sepoltura. In Gn 15,15, Dio ha
detto a Abrahamo che egli andrebbe dai suoi padri in pace. Ma Abrahamo non è
stato seppellito con i suoi padri. Suo padre è morto in Charan (Gn 11,32). La
Torah vieta d’avere contatti con gli spiriti dei morti (Lv 19-20; Dt 18), il che
indica che qualcosa della persona vive dopo la morte fisica.
Anche se gli
insegnamenti della Torah su quest’argomento sono ermetici, non dobbiamo
dimenticare che Gesù stesso per dimostrare la risurrezione s’avvalse d’un brano
ermetico della Torah: «Io sono l’Iddio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe».
Se non ci fosse stato Gesù, quanti di noi, oggi, avrebbe pensato che ci si
potesse avvalere d’un brano del genere per dimostrare la risurrezione?
L’ebraismo dice che l’uomo condivide gli stessi processi fisiologici e chimici
degli animali, e che da questo punto di vista è indistinguibile da loro. Quindi
si parla dell’uomo che ha una «anima animale» (nefeš habehamit)
contenuta nel sangue, cioè nei processi della vita fisico-chimica. A proposito
di quest’anima, la Torah dice, «la vita della carne è nel sangue» (Lv
17,11).
Poiché
questa «anima animale» distingue l’uomo dalla sua essenza spirituale, nel Talmud
viene chiamata «istinto malvagio» (jetzer hara).
Oltre
alla sua parte materiale, tuttavia, l’uomo possiede un’anima che è univoca tra
tutte le creazioni di Dio. Nella descrizione della creazione d’Adamo, la Torah
dice, «E l’Eterno
Dio
formò
l’uomo
dalla
polvere
della
terra, gli
soffiò
nelle
narici
un
alito
vitale
[nišmat chajim], e l’uomo
divenne
un’anima
vivente
[nefeš chajah]» (Gn
2,7).
N.d.R.: Per l’approfondimento di Gn 2,7 cfr. Nicola Martella, Esegesi delle origini,
Le Origini 2 (Punto°A°Croce, Roma 2006), pp. 115-127. |
L’ebraismo dice che la Torah insegna che
l’anima umana è venuta direttamente dall’essenza intima di Dio nello stesso modo
che un respiro esce dai polmoni d’una persona. Il resto della creazione, è stato
creato con la parola, ma l’anima dell’uomo dalla sua essenza più interiore.
Perciò è impossibile che l’anima possa morire alla morte del corpo. Questo è ciò
che Salomone voleva dire quando scrisse: «che la
polvere
torni
alla
terra
com’era
prima, e lo
spirito
torni a
Dio che l’ha
dato» (Ec 12,17).
L’ebraismo ritiene che l’anima sia formata da tre
parti chiamate nefeš, ruach
e nešama. La parola nešama
viene da nešeema, che vuole dire letteralmente «respiro».
Ruach vuol dire «vento». Nefeš viene dalla radice
nafaš, che significa «riposo», come nel verso, «e il
settimo
giorno
[Dio]
cessò
di
lavorare, e si
riposò [nafaš]» (Es
31,17; N.d.R.: Il verbo nafaš significava letteralmente «(ri)prendere il
respiro», da qui venne a significare «respirare»).
L’esalazione dell’anima viene descritta come: Il respiro (nešama)
prima lascia le labbra del defunto, viaggia come un vento (ruach)
e infine giunge al riposo (nefeš). Di questi tre livelli dell’anima,
nefeš è considerato il più alto in quanto arriva più vicino a Dio, mentre
nešama
è quell’aspetto dell’anima che risiede nel corpo. Ruach
rimane fra i due, legando l’uomo alla sua fonte spirituale. È per questa
ragione che l’ispirazione divina è chiamata ruach hakodeš in
ebraico.
La morte
è citata spesso dagli Ebrei come «partenza dell’anima» (jetziat hanešama),
e in questo processo essa si lamenta. C’è un’allusione di ciò in Gb 14,22 «l’anima
sua è in lutto». I cabalisti chiamano questo fenomeno
chibut hakever, «punizione della tomba».
Lo storico ebreo Giuseppe Flavio ha dichiarato
che i Farisei —considerati i fondatori del giudaismo rabbinico, cioè l’attuale
giudaismo, di cui anche l’apostolo Paolo era orgoglioso d’appartenere —
credevano nella vita dopo la morte. Solo i Sadducei credevano che tutto finisse
con la morte.
Rabbi Lauren Eichler
Berkun, un rabbino dei tempi attuali, commentando Nu 20,24 «Aaronne sta per
essere raccolto presso il suo popolo», dice: «Quest’espressione si riferisce
al viaggio dell’anima». La sopravvivenza dell’anima
è un aspetto importante della teologia giudaica.
È vero che l’ebraismo
non accetta l’idea che il corpo e l’anima siano fondamentalmente diversi, eppure
nello stesso tempo insegna che l’anima continua a vivere dopo la morte. Mentre
una persona è viva, invece, il corpo e l’anima sono completamente uniti. Ciò
viene spiegato in un midraš: «Questo è simile al caso d’un re che aveva un
giardino con delle straordinarie piante di fico e vi ha messo come custodi due
uomini, uno zoppo e l’altro cieco. Egli disse loro: “Fate attenzione a questi
fichi”. Dopo alcuni giorni lo zoppo dice all’altro: “Vedo dei bei fichi”. Gli
risponde il cieco: “Prendili e mangiamoli”. “Sono forse in grado di camminare?”,
dice lo zoppo. “E io, posso vederli?”, replica il cieco. Lo zoppo si è messo a
cavalcioni sulle spalle del cieco, ha raccolto i fichi ed entrambi si sono messi
a mangiare. Dopo alcuni giorni il re è entrato nel giardino e ha detto loro:
“Dove sono i fichi?”. L’uomo cieco ha risposto: “Mio signore, posso forse
vedere?”. Lo zoppo ha risposto: “Mio signore, posso forse camminare?”. Che cosa
ha fatto il re, che era un uomo intelligente? Egli ha messo lo zoppo sulle
spalle del cieco e i due hanno cominciato a spostarsi insieme. Il re ha detto
loro: “È così che avete mangiato i miei fichi”. Anche il Santo Benedetto Egli
Sia, nel mondo a venire, dirà all’anima: “Perché hai peccato nel mio cospetto?”,
e l’anima risponderà: “O Padrone dell’universo, non sono io che ho peccato, ma
il mio corpo è quello che ha peccato. Io sono soltanto aria, come potevo
peccare?”. Il Signore dirà al corpo: “Perché hai peccato al mio cospetto?”, e il
corpo risponderà: “O Padrone dell’universo, io non ho peccato, è l’anima quella
che ha peccato. Io sono soltanto polvere, come potevo peccare?”. Che cosa farà
il Santo Benedetto Egli Sia? Riporterà l’anima nel corpo e li giudicherà
entrambi come uno» [Levitico Rabbah 4,5].
Questo è molto diverso
dal concetto greco. Nell’ebraismo le anime ritorneranno nel corpo, mentre i
greci pensavano che il corpo fosse la prigione dell’anima, dal quale una volta
uscita non sarebbe più ritornata.
Ho riportato solo una
piccola parte delle affermazioni ebraiche sulla condizione dell’anima dopo la
morte. Come si può dunque sostenere che «Non c’è pertanto nel mondo ebraico
alcuna idea dell’anima che possa vivere indipendentemente dal corpo»?
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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/T1-Stato_intermedio_MT_AT.htm
07-04-2007; Aggiornamento: 09-11-2008
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