Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Dopo una introduzione alle problematiche della teologia dell’AT, segue il dizionario teologico dell’AT.

   Ecco le parti principali dell’introduzione alla teologia dell’AT:
■ Il compito e l’oggetto della Teologia dell’AT
■ Le posizioni teologiche più ricorrenti
■ I patti e gli altri approcci
■ Contro l’appiattimento storico e teologico dell’AT.

 

Al dizionario teologico dell’AT sono acclusi un registro delle voci e un registro ragionato delle stesse detto «percorsi teologici».

 

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DISCUTENDO SULLO «STATO INTERMEDIO»

 

 a cura di Nicola Martella

 

La serie di articoli, raggruppati sotto il link «Stato intermedio e sonno dell’anima» {Nicola Martella - Argentino Quintavalle}, ha suscitato l'interesse di alcuni lettori. Ricordiamo che con l'espressione «stato intermedio» si intende il periodo tra la morte e la risurrezione della carne. I «distruzionisti» credono che alla morte l'intero essere venga annientato (avventisti, teologi liberali, Torre di Guardia). Gli «spiritualisti» credono che i morti non solo continuano a esistere, ma che ottengano subito il premio e siano subito efficienti nel servire Dio in cielo (spiritualisti cattolici e protestanti, darbisti, platonismo cristianizzato). Secondo noi, invece, gli spiriti dei morti vanno in Paradiso (luogo diverso dal «cielo», dove risiede la corte celeste), dove aspettano (coscienti ma non storicamente efficienti) la risurrezione della carne. È interessante notare che mai viene detto che gli spiriti debbano risuscitare, ma sempre i corpi o la carne.

   Ora, Daniele Bastari, un credente avventista, ha preso il coraggio di presentare il suo punto di vista (ossia quello avventista) su alcuni aspetti di questo. Certamente ciò non mancherà di suscitare un dialogo tra le parti interessate e, speriamo, anche con altri credenti.

 

     Che cosa ne pensate? Quali sono al riguardo le vostre esperienze, idee e opinioni?

Partecipate alla discussione inviando i vostri contributi al Webmaster (E-mail)

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I contributi sul tema

(I contributi rispecchiano le opinioni personali degli autori.

I contributi attivi hanno uno sfondo bianco)

 

1. Daniele Bastari

2. Nicola Martella

3. A. Quintavalle

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Clicca sul lemma desiderato per raggiungere la rubrica sottostante

 

 

1. {Daniele Bastari} 

 

Caro Nicola, pensavo di rispondere parola per parola al vostro scritto, ma poi ho pensato di condividere con te ciò che penso sullo stato intermedio dei defunti in termini più generali. È proprio simpatico assistere a questa bella diatriba fra amici, tu e Argentino che non si risparmiano epiteti inoffensivi, senza esclusione di colpi. Il problema che affrontate in questa pagina mi ha coinvolto per circa una trentina d’anni e, pur non avendo la certezza d’averlo definitivamente risolto, penso d’averne una inquadratura più chiara rispetto a trent’anni fa. Lo imposterei come segue.

 

     1. Il quadro di riferimento del pensiero ebraico nei due testamenti: Il monoteismo biblico si ripercuote sull’antropologia biblica con il monismo antropologico: l’uomo è un’unità antropologica inscindibile. Genesi 2,7 ci ricorda che l’uomo è anima e non ha un’anima. Quando utilizziamo la parola anima (eb. nepheš, gr. psyché) ricordiamoci che il pensiero ebraico si differenzia totalmente da quello greco. Rubo a Gianfranco Ravasi, noto biblista cattolico un lungo brano dove emergono alcune citazioni tratte da opere autorevoli sul soggetto: innanzitutto egli afferma che «per le voci di dizionario, è d’obbligo riferirsi alla sterminata trattazione di psyché del Grande Lessico del Nuovo Testamento, che occupa 160 colonne e coinvolge cinque esegeti d’indubbio prestigio. Gli esiti, comunque, sono analoghi e vengono solitamente siglati con una locuzione divenuta ormai popolare anche nei testi divulgativi: la Bibbia presenta un’«unità psicofisica» che non ammette le ben note distinzioni più o meno «dualistiche» della tradizione greca tra anima e corpo.

     Per ricorrere a una formulazione più articolata, citiamo qualche riga della famosa Semantica del linguaggio biblico di James Barr: «Secondo il pensiero greco nell’uomo vi è dicotomìa un’anima immateriale imprigionata o confinata in un corpo mortale; i due elementi sono in rapporto reciproco solo in maniera temporanea e accidentale. Secondo il pensiero ebraico, l’anima non è altro che la persona umana in quanto vivente nella sua carne. Anima e carne non sono fra di loro separabili, ma questa è la manifestazione esterna e visibile dell’altra. Non c’è pertanto nel mondo ebraico alcuna idea dell’anima che possa vivere indipendentemente dal corpo».

Claude Tresmontant nel suo libro Il problema dell’anima edizioni Paoline, afferma: «Intendiamo esporre qui, tra i momenti principali della storia del concetto d’anima, l’originalità dell’antropologia ebraica e la nozione ebraica d’anima. È quest’infatti che passa nel Nuovo Testamento greco costituendo la base dell’antropologia cristiana. Esiste in ebraico una parola, néfeš, che viene tradotta in greco psyché e in latino anima. Il maggior errore e la peggior illusione consiste nel ritenere che si possa passare da un universo di pensiero a un altro, stabilendo semplicemente una corrispondenza linguistica tra due termini che in realtà non hanno lo stesso significato. L’illusione consiste nell’immaginarsi che l’analogia verbale che risulta semplicemente dalla traduzione, ricopra un’analogia reale. Dato che la Bibbia ebraica comporta un termine, tradotto in greco con psyché e in latino anima, si pensò di poter ragionare su ciò che la Bibbia chiama anima, allo stesso modo di come si ragiona su quello che intendono Platone, Plotino o Cartesio. Fu un grave errore. Sotto l’identità del termine, le differenze di contenuto sono radicali».

     Per il pensiero biblico quindi alla morte non muore il corpo (termine che in ebraico non esiste), ma l’anima, cioè l’essere umano nella sua totalità. L’uomo fu creato come essere corporeo e per lui non esiste altro modo d’essere se non nella corporeità. Questa è la creazione di Dio e così sarà anche nella palingenesi. L’uomo vive oggi e potrà vivere alla resurrezione come essere corporeo. La fede biblica è la fede più materialista di tutte le fedi, perché s’occupa della salvezza di tutto l’essere umano e non d’una sola parte d’esso.

     Quando leggo questi testi di biblisti cattolici che per affermare ciò che affermano devono essere prima passati sui loro cadaveri di teologi impregnati di filosofia neoplatonica e teologia scolastica, resto allibito che teologi evangelici non hanno lo stesso coraggio di distaccarsi dalla «santa tradizione evangelicale».

     La sincerità estrema del biblista cattolico G. Battista Mondin che afferma che l’unica ragione che non permette alla chiesa cattolica d’accettare l’antropologia biblica è la mariologia, apre ampi varchi di dialogo, perché è la confessione che a livello biblico non è possibile sostenere l’insegnamento dell’immortalità dell’anima, che viene mantenuto nel cattolicesimo per ragioni che riguardano la devozione mariana e non l’ermeneutica biblica.

     Nell’ambito evangelico chi non crede allo stato intermedio cosciente viene marchiato col sospetto d’eresia; John Stott il famoso teologo evangelico pervenuto alla convinzione dello stato d’incoscienza dei defunti in attesa della resurrezione, affrontò notevoli difficoltà per essere accettato come teologo evangelico.

     L’attuale stato della questione è la seguente: i teologi riformati europei condividono con i teologi cattolici la certezza che nella Bibbia non s’accenna minimamente alla dottrina della sopravvivenza dell’anima dopo la morte.

     Nella Bibbia l’aggettivo immortale non è mai usato per qualificare il sostantivo anima.

 

     2. Il quadro dell’antropologia ebraica nel periodo intertestamentario: Nel periodo intertestamentario, a causa d’una ellenizzazione forzata d’Israele, questo quadro chiaro dell’antropologia biblica subì forti adulterazioni, che è possibile osservare in alcuni testi apocrifi  o deuterocanonici.

     Nel libro dei Maccabei viene presentata come una prassi ordinaria la preghiera per i morti in battaglia, mentre nel Siracide si presenta il fatto che avere un bel corpo nella vita terrena è da considerarsi come un premio per una retta vita precedentemente vissuta. Da questi soli due testi non canonici s’evince che sia la credenza nella metempsicosi che il bisogno d’intercedere per i morti non furono mai accettati dalla fede ortodossa d’Israele, ma facevano comunque parte d’un soffuso modo di pensare del popolo, un po’ come oggi, anche fra i cattolici c’è chi crede alla reincarnazione.

     Il profeta Daniele, l’ultimo autore canonico dell’Antico Testamento a parlare dell’aldilà, manifesta la sua fede nella resurrezione di coloro che dormono nella polvere (Dan 12) e non nella sopravvivenza dei defunti.

 

     3. Conclusione: Tenuto conto dell’inamovibile fondamento dell’antropologia biblica, le interpretazioni possibilistiche dei singoli testi apparentemente in contraddizione con questo quadro così chiaro, lasciano il tempo che trovano.

     Ricordo soltanto che in soli due testi Paolo parla in maniera chiara e specifica della sorte dei defunti, in 1 Cor 15 e in 2 Ts 4,16ss e non lascia adito alla minima perplessità in merito. Non fa elucubrazioni sullo stato intermedio e non possiamo servirci d’altri testi di Paolo in cui egli parla d’aspirazione o desiderio d’essere con il Signore, senza minimamente pretendere di definire né il come né il quando.

     Dove la Bibbia tace è bene che tacciamo anche noi. Fu il venir meno dell’attesa escatologica a far penetrare nella chiesa cristiana la speranza d’una rimunerazione immediata subito dopo la morte.

     Se pensi d’aprire un dialogo su un singolo testo alla volta fra quelli citati da Argentino, potrebbe essere interessante. Un caro saluto e un sincero apprezzamento per il tuo ministero. Con affetto.

 

 

2. {Nicola Martella} 

 

Ringrazio Daniele Bastari di averci presentato il punto di vista avventista dello «stato intermedio», ossia della non-esistenza degli esseri morti fino alla risurrezione. Chiaramente non bisogna per forza condividerlo. Invece di dare una risposta, come coordinatore del sito mi limito a porre una serie di domande e osservazioni che possono aiutare il lettore a orientarsi nella discussione.

     È corretto questo quadro antropologico dell’autore precedente dal punto di vista teologico ed esegetico? Basta fare un corollario di citazioni di autori a proprio favore per ritenere assodato il risultato? (Si può fare lo stesso per tesi contrapposte!). Ha detto lo scrittore umoristico israeliano Kishon: «Per esempio non è un argomento». La descrizione fatta dall’autore precedente non è riduttiva rispetto alla vasta portata del fenomeno nell’AT e nel NT? Come mai gli autori avventisti parlano dell’«anima», ma trascurano i vari brani in cui si parla dello «spirito» nel momento della morte e dopo di essa? Se la rimunerazione immediata subito dopo la morte è una dottrina sbagliata (i morti vanno nel Paradiso e attendono lì la risurrezione; cfr. Lc 16), invalida già questo l’esistenza personale dopo la morte? Perché è importante distinguere nella Bibbia i brani funzionali (anima, spirito, cuore, ecc. sono funzioni dell’essere) da quelli costitutivi (qui l’uomo viene creato da due essenze di base o si scompone alla morte nelle sue due essenze di base)? Era Gesù un dualista, quando parlava di (uccidere) corpo e anima? I discepoli avevano le traveggole, quando sul monte della trasfigurazione videro Mosè (morto) ed Elia (rapito)? Gesù aveva anche sbagliato a rivelare che Abramo e Lazzaro si trovavano nel luogo di godimento (Paradiso), mentre il ricco si trovava subito dopo la morte nell'Ades? (Lc 16). Gesù aveva fatto una falsa promessa al ladrone in croce che quello stesso giorno sarebbe stato con lui in Paradiso? Gesù aveva sbagliato a rimettere il suo «spirito» nelle mani del Padre? Sbagliò anche Stefano quando rimise il suo spirito nelle mani di Gesù. Era Paolo un dualista greco, quando parlava di «uomo interiore» e «uomo esteriore» o usava espressioni simili riferendosi alle due essenze di base dell’uomo? Erano solo «simboliche» le anime (= persone) già risuscitate dei martiri, che Giovanni, essendo in cielo, vide e udì al di sotto dell’altare e che furono rivestite di una veste? (Ap 6,9ss).

 

Per lo studio dell’antropologia biblica cfr. in Nicola Martella, Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma 2002), gli articoli: «Antropologia 1: Specie e genere», pp. 86s; «Antropologia 2: Globalità dell’essere», pp. 87ss; «Antropologia 3: I componenti principali», pp. 89s; «Antropologia 4: Funzioni principali», pp. 90ss.

 

 

3. {Argentino Quintavalle} 

 

Partendo da una ipotesi, facendo dei ragionamenti logici s’arriva a una tesi. Il ragionamento di Daniele Bastari è più che logico e apprezzabile, ma la sua debolezza si trova nell’ipotesi di partenza. Citando James Barr egli dice: «Non c’è pertanto nel mondo ebraico alcuna idea dell’anima che possa vivere indipendentemente dal corpo». Probabilmente James Barr avrà detto tante cose giuste, ma qui è andato completamente fuori strada. L’ebraismo (sia quell’ortodosso che quello chassidico) sostiene nella maniera più assoluta che l’anima umana sopravvive alla morte fisica. Prima di proseguire, però, voglio precisare che mentre noi distinguiamo tra l’ebraismo dell’Antico Testamento, quello tra i due Testamenti e quello del Nuovo Testamento, gli Ebrei distinguono solamente tra il periodo del Primo Tempio e il periodo del Secondo Tempio. Non c’è una superiorità dell’uno sull’altro, poiché la differenza è essenzialmente storica più che teologica. La mentalità occidentale tende a tracciare delle linee di demarcazione molto nette del tipo: nell’Antico Testamento si pensava così, tra i due Testamenti si pensava cosà. Gli Ebrei invece hanno una continuità di pensiero molto simile a quello che noi in teologia chiamiamo «rivelazione progressiva».

     Fatta questa premessa, c’è molto materiale rabbinico che descrive ciò che accade all’anima dopo la morte. Essi sostengono che la Tanakh (Bibbia ebraica) parla di numerose persone che vengono «riunite al suo popolo». Vedi per esempio Gn 25,8 (Abrahamo), 25,17 (Ismaele), 35,29 (Isacco), 49,33 (Giacobbe), Dt 32,50 (Mosè e Aaronne), 2 Re 22,20 (Giosia). Questa «riunione» viene vista come un evento diverso dalla morte fisica del corpo o dalla sepoltura. In Gn 15,15, Dio ha detto a Abrahamo che egli andrebbe dai suoi padri in pace. Ma Abrahamo non è stato seppellito con i suoi padri. Suo padre è morto in Charan (Gn 11,32). La Torah vieta d’avere contatti con gli spiriti dei morti (Lv 19-20; Dt 18), il che indica che qualcosa della persona vive dopo la morte fisica.

     Anche se gli insegnamenti della Torah su quest’argomento sono ermetici, non dobbiamo dimenticare che Gesù stesso per dimostrare la risurrezione s’avvalse d’un brano ermetico della Torah: «Io sono l’Iddio d’Abramo, d’Isacco e di Giacobbe». Se non ci fosse stato Gesù, quanti di noi, oggi, avrebbe pensato che ci si potesse avvalere d’un brano del genere per dimostrare la risurrezione?

     L’ebraismo dice che l’uomo condivide gli stessi processi fisiologici e chimici degli animali, e che da questo punto di vista è indistinguibile da loro. Quindi si parla dell’uomo che ha una «anima animale» (nefeš habehamit) contenuta nel sangue, cioè nei processi della vita fisico-chimica. A proposito di quest’anima, la Torah dice, «la vita della carne è nel sangue» (Lv 17,11).

 

N.d.R.: Per l’approfondimento cfr. in Nicola Martella, Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma 2002), gli articoli: «Anima», p. 85; «Uomo: parti e funzioni», pp. 376s.

 

     Poiché questa «anima animale» distingue l’uomo dalla sua essenza spirituale, nel Talmud viene chiamata «istinto malvagio» (jetzer hara).

     Oltre alla sua parte materiale, tuttavia, l’uomo possiede un’anima che è univoca tra tutte le creazioni di Dio. Nella descrizione della creazione d’Adamo, la Torah dice, «E l’Eterno Dio formò l’uomo dalla polvere della terra, gli soffiò nelle narici un alito vitale [nišmat chajim], e l’uomo divenne un’anima vivente [nefeš chajah]» (Gn 2,7).

 

N.d.R.: Per l’approfondimento di Gn 2,7 cfr. Nicola Martella, Esegesi delle origini, Le Origini 2 (Punto°A°Croce, Roma 2006), pp. 115-127.

 

     L’ebraismo dice che la Torah insegna che l’anima umana è venuta direttamente dall’essenza intima di Dio nello stesso modo che un respiro esce dai polmoni d’una persona. Il resto della creazione, è stato creato con la parola, ma l’anima dell’uomo dalla sua essenza più interiore. Perciò è impossibile che l’anima possa morire alla morte del corpo. Questo è ciò che Salomone voleva dire quando scrisse: «che la polvere torni alla terra com’era prima, e lo spirito torni a Dio che l’ha dato» (Ec 12,17).

     L’ebraismo ritiene che l’anima sia formata da tre parti chiamate nefeš, ruach e nešama. La parola nešama viene da nešeema, che vuole dire letteralmente «respiro». Ruach vuol dire «vento». Nefeš viene dalla radice nafaš, che significa «riposo», come nel verso, «e il settimo giorno [Dio] cessò di lavorare, e si riposò [nafaš]» (Es 31,17; N.d.R.: Il verbo nafaš significava letteralmente «(ri)prendere il respiro», da qui venne a significare «respirare»).

     L’esalazione dell’anima viene descritta come: Il respiro (nešama) prima lascia le labbra del defunto, viaggia come un vento (ruach) e infine giunge al riposo (nefeš). Di questi tre livelli dell’anima, nefeš è considerato il più alto in quanto arriva più vicino a Dio, mentre nešama è quell’aspetto dell’anima che risiede nel corpo. Ruach rimane fra i due, legando l’uomo alla sua fonte spirituale. È per questa ragione che l’ispirazione divina è chiamata ruach hakodeš in ebraico.

     La morte è citata spesso dagli Ebrei come «partenza dell’anima» (jetziat hanešama), e in questo processo essa si lamenta. C’è un’allusione di ciò in Gb 14,22 «l’anima sua è in lutto». I cabalisti chiamano questo fenomeno chibut hakever, «punizione della tomba».

     Lo storico ebreo Giuseppe Flavio ha dichiarato che i Farisei —considerati i fondatori del giudaismo rabbinico, cioè l’attuale giudaismo, di cui anche l’apostolo Paolo era orgoglioso d’appartenere — credevano nella vita dopo la morte. Solo i Sadducei credevano che tutto finisse con la morte.

     Rabbi Lauren Eichler Berkun, un rabbino dei tempi attuali, commentando Nu 20,24 «Aaronne sta per essere raccolto presso il suo popolo», dice: «Quest’espressione si riferisce al viaggio dell’anima». La sopravvivenza dell’anima è un aspetto importante della teologia giudaica.

     È vero che l’ebraismo non accetta l’idea che il corpo e l’anima siano fondamentalmente diversi, eppure nello stesso tempo insegna che l’anima continua a vivere dopo la morte. Mentre una persona è viva, invece, il corpo e l’anima sono completamente uniti. Ciò viene spiegato in un midraš: «Questo è simile al caso d’un re che aveva un giardino con delle straordinarie piante di fico e vi ha messo come custodi due uomini, uno zoppo e l’altro cieco. Egli disse loro: “Fate attenzione a questi fichi”. Dopo alcuni giorni lo zoppo dice all’altro: “Vedo dei bei fichi”. Gli risponde il cieco: “Prendili e mangiamoli”. “Sono forse in grado di camminare?”, dice lo zoppo. “E io, posso vederli?”, replica il cieco. Lo zoppo si è messo a cavalcioni sulle spalle del cieco, ha raccolto i fichi ed entrambi si sono messi a mangiare. Dopo alcuni giorni il re è entrato nel giardino e ha detto loro: “Dove sono i fichi?”. L’uomo cieco ha risposto: “Mio signore, posso forse vedere?”. Lo zoppo ha risposto: “Mio signore, posso forse camminare?”. Che cosa ha fatto il re, che era un uomo intelligente? Egli ha messo lo zoppo sulle spalle del cieco e i due hanno cominciato a spostarsi insieme. Il re ha detto loro: “È così che avete mangiato i miei fichi”. Anche il Santo Benedetto Egli Sia, nel mondo a venire, dirà all’anima: “Perché hai peccato nel mio cospetto?”, e l’anima risponderà: “O Padrone dell’universo, non sono io che ho peccato, ma il mio corpo è quello che ha peccato. Io sono soltanto aria, come potevo peccare?”. Il Signore dirà al corpo: “Perché hai peccato al mio cospetto?”, e il corpo risponderà: “O Padrone dell’universo, io non ho peccato, è l’anima quella che ha peccato. Io sono soltanto polvere, come potevo peccare?”. Che cosa farà il Santo Benedetto Egli Sia? Riporterà l’anima nel corpo e li giudicherà entrambi come uno» [Levitico Rabbah 4,5].

     Questo è molto diverso dal concetto greco. Nell’ebraismo le anime ritorneranno nel corpo, mentre i greci pensavano che il corpo fosse la prigione dell’anima, dal quale una volta uscita non sarebbe più ritornata.

     Ho riportato solo una piccola parte delle affermazioni ebraiche sulla condizione dell’anima dopo la morte. Come si può dunque sostenere che «Non c’è pertanto nel mondo ebraico alcuna idea dell’anima che possa vivere indipendentemente dal corpo»?

 

 

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► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/T1-Stato_intermedio_MT_AT.htm

07-04-2007; Aggiornamento: 09-11-2008

 

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