Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

La fede che pensa — Accettare la sfida nel nostro tempo

«Glaube gegen den Strom»: Für das biblische Unterscheidungsvermögen — «Faith countercurrent»: For the biblical discernment — «Foi contre-courant»: Pour le discernement biblique — «Fe contracorriente»: Por el discernimiento bíblico

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Escatologia 1

 

Soteriologia

 

 

 

 

Questa opera contiene senz’altro alcune novità. Leggendo i brani escatologici della Bibbia sorgono vari interrogativi, ad esempio i seguenti:
■ I credenti, quando muoiono, vanno in cielo o in paradiso?
■ I morti nell’aldilà sono solo inattivi o anche incoscienti?
■ I bimbi morti dove vanno?
■ Se nessuno sa il giorno e l’ora dell’avvento del Messia, perché diversi cristiani hanno fatto predizioni circostanziate per il loro futuro imminente?
■ Qual è la differenza fra escatologia e utopia?
■ In che cosa si differenzia la speranza biblica dalla speranza secolarizzata di alcuni marxisti?
■ Il «rapimento» precederà o seguirà la tribolazione finale?
■ Quando risusciteranno i credenti dell’AT?
■ Il regno millenario è concreto o solo spirituale?
■ Durante il suo regno futuro col Messia regnerà sono Israele o anche la chiesa?
■ Nella nuova creazione i credenti abiteranno in cielo o sulla nuova terra?
■ Lo stagno di fuoco esisterà per sempre?
■ I morti si riconoscono nell’aldilà?
■ Non sarà noioso vivere nel nuovo mondo?
■ Ci sarà il tempo nel nuovo mondo?
■ Ci sarà il matrimonio nel nuovo mondo?
■ Eccetera...

 

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Escatologia 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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NATURA DIVINA E INCORRUTTIBILITÀ IN 2 PIETRO 1,3-4

 

 di Francesco Grassi

 

Nella teologia cristiana si parla del «già qui e non ancora», ossia degli aspetti attuali della salvezza in attesa del loro compimento finale. La fede dei cristiani biblici è posta, in tal modo, in una certa tensione fra il primo e il secondo avvento di Gesù Cristo. Tale tensione rimane anche nell’interpretazione di brani come 2 Pietro 1,3-4. È evidente che a seconda se si privilegerà il «già qui» (attualità della salvezza) o il «non ancora» (salvezza futura), si arriverà a un’altra conclusione riguardo a tale brano.

    L’attuale articolo di Francesco Grassi privilegia una tesi più escatologica. A essa risponde Tonino Mele nell'articolo «2 Pietro 1,3-4 tra storia ed escatologia» con una tesi più storica. Ambedue gli articoli sono chiaramente pregevoli, e siamo grati agli autori per le loro fatiche. Chi è maturo nella fede ed avvezzo allo studio biblico, troverà nel confronto di ambedue gli articoli un arricchimento e un buon esercizio di ermeneutica biblica, per mettere alla prova  le proprie capacità interpretative. {Nicola Martella}

 

 

1.  INTRODUZIONE AL BRANO: Spesso nell’interpretazione d’un brano difficile, la prima cosa che facciamo è quella di ricorrere a possibili brani paralleli. Questo non è sbagliato in sé, ma può capitare di dire la «cosa giusta nel posto sbagliato». È certamente vero e giusto che la «Bibbia si spiega con la Bibbia», ma questo non è sempre necessario e desiderabile, quando il risultato è che un brano viene appiattito su d’un altro. Soprattutto poi quando una soluzione più coerente si può avere, pur non andando contro le altre verità bibliche, partendo da una esegesi strettamente legata al contesto immediato e letterario (cioè di uno stesso autore).

     Rimanere strettamente legati al contesto e al linguaggio, ci dà inoltre la possibilità di carpire le «sfumature» teologiche (non diverse teologie però!) d’ogni autore, e solo successivamente d’inquadrarle nel più ampio concetto teologico-biblico e canonico.

     Da quello che mi sembra di capire, infatti, qualunque cosa voglia dire l’espressione «natura divina», Pietro sta evidenziando «un aspetto» di quella tensione oramai ben conosciuta in teologia biblica, ovvero del «già qui, ma non ancora», senza con questo voler negare altri aspetti della medesima, sostenuti da Paolo per esempio (concetto di giustificazione, rigenerazione, adozione, ecc.).[1] Secondo questa tensione possiamo coerentemente dire che siamo già stati salvati, abbiamo ricevuto la vita eterna, abbiamo le primizie dello Spirito, siamo stati adottati, siamo stati redenti, ecc. Tuttavia, allo stesso tempo, attendiamo ancora la salvezza (Rm 8,24; Eb 9,28), la redenzione (Ef 1,14), la futura adozione (Rm 8,23), la pienezza «di Dio» (1 Cor 15,28); siamo ancora continuamente trasformati a immagine di Cristo (2 Cor 3,18; cfr. 4,16; Col 3,10) e saremo solo alla fine simili a lui, pur essendo già ora figli (1 Gv 3,2); saremo liberati, non solo dalla potenza del peccato (Rm 6,18.22; 8,21; Col 1,13), ma anche della sua presenza (Ap 21-22; 1 Cor 15,53); saremo glorificati (Rm 5,2, 8,17.30), benché già oggi abbiamo la gloria di Dio (Gv 17,22; Rm 3,23); rivestiamo oggi «un uomo nuovo» (Ef. 4.24), ma solo al futuro «rivestiremo l’incorruttibile» (1 Cor, 15,53-54).

     Ora, la questione è quale aspetto Pietro vuole evidenziare: passato (rigenerazione / nuova nascita) o futuro (glorificazione / resurrezione)? Prima d’analizzare il brano e cercare d’individuare da quale parte della tensione Pietro stia, mi sembra opportuno dare una veloce occhiata allo sfondo storico e linguistico della frase «partecipi della natura divina».

 

 

2.  LO SFONDO DEL BRANO[2]

 

2.1.  IL GIUDAISMO ELLENISTA: Questo passo è indispensabile perché, a causa delle evidenti somiglianze con il concetto filosofico di «deificazione», il verso in questione ha dato origine a non poche interpretazioni nel corso della storia, molte delle quali hanno visto in esso una «ricaduta»[3] nel platonismo o almeno in qualche forma di giudaismo ellenista[4], sviluppatosi durante il periodo tolemaico e poi seleucide.

     Quest’ultimo aveva adottato il linguaggio del tempo, ma lo aveva adattato alla propria tradizione e teologia. È durante questo periodo che viene prodotto lo scritto apocrifo Sapienza di Salomone, nel quale troviamo scritto: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura» (Sapienza 2,23).

     Filone, scrittore e filosofo giudeo vissuto al tempo di Gesù, ci dà un’idea di questa fusione fra giudaismo ed ellenismo: «Infatti, come potrebbe l’anima percepire Dio, se Lui non l’avesse ispirata e toccata secondo il suo potere? Perché l’intelletto umano non avrebbe osato fino al punto da reclamare la natura divina, se Dio stesso non l’avesse tratto a sé, per quanto fosse possibile alla mente umana questa trazione, e se Lui non lo avesse formato secondo poteri che possono essere compresi».[5]

     «Anche i re mi sembra rispecchino la natura divina in questo particolare, e agiscano allo stesso modo, concedendo personalmente il loro favore, ma infliggendo il loro castigo mediante gli altri».[6]

     Si ritrova spesso una sorta di fusione della dottrina della resurrezione con quella della deificazione[7], pur con alcune differenze. Mentre per i giudei la resurrezione era qualcosa di pertinente al futuro (più precisamente «all’ultimo giorno»; cfr Gv. 5,39-54; 11,24), la deificazione era qualcosa d’ottenibile attraverso un «processo» di divinizzazione, di solito[8] mediante la «gnosi»[9], conoscenza mistica e nascosta ai non adepti. Questo processo sarebbe culminato soltanto alla morte e avrebbe visto la sua piena realizzazione quando l’essere umano sarebbe stato «assorbito» dalla divinità e ne avrebbe ereditato l’immortalità.[10] Ne viene comunque che anche in alcuni ambiti del giudaismo l’uomo pio poteva già in questa vita «partecipare alla natura divina» (cfr. Filone, Interpretazione allegorica, 1,38).

     Il giudaismo non aveva però abbandonato il suo monoteismo; pertanto rimaneva un solo Dio e una chiara distinzione con la sua creatura.[11] L’uomo non diventava in nessun senso un semi-dio, ma era creato in modo da condividere alcuni attributi della divinità, quali l’immortalità e «l’incorruttibilità». Inoltre, non si ritrova nel giudaismo l’enfasi più forte del platonismo che vede la deificazione come qualcosa di possibile solo attraverso la «fuga dal mondo materiale»[12]. Infatti, anche in epoca post-esilica, il giudaismo aveva ritenuto[13] la «sua» più forte enfasi in una speranza futura molto terrena, seppur incorruttibile.

     In ultima analisi quindi, il giudaismo ellenista si distanzia da quel platonismo estremo[14], ma come abbiamo già osservato, adotta il linguaggio (cosa inevitabile anche per un popolo esclusivista quale quell’ebraico; si ricordi che è in epoca tolemaica che vien prodotta la LXX, traduzione / parafrasi in greco dell’AT)[15] e la possibilità di condividere l’immortalità di Dio in questa vita, diventando partecipi della sua natura «incorruttibile e immortale».[16] 

 

 

2.2.  RILEVANZA PER IL NT: Cosa dire, dunque, di Pietro e della frase «diventaste partecipi della natura divina»? Non si può evadere dal linguaggio filosofico usato e dalle sue sfumature; esso infatti ricorda molto un qualche concetto greco di «deificazione». Benché spesso adottato per sostenere tale concetto (vedi tradizione ortodossa, alcuni circoli carismatici, fino anche alla new age e al buddismo), Pietro però prende subito le distanze dalle religioni / filosofie greche estreme. Infatti, mentre per queste ultime il problema era il mondo materiale, Pietro specifica che il problema è la «concupiscenza che è nel mondo» (1,4), l’iniquità degli uomini (capitolo 2), l’assenza di santità (3,11) e l’assenza di giustizia (3,13). Inoltre, anche se in 2 Pietro 1,3 si ritrova il termine «conoscenza» (gr. epignosis), questa non è una mera conoscenza teorica o un fusione mistica con la divinità bensì una conoscenza personale di Dio «in Cristo», mediante la chiamata, che ci è stata rivolta.

 

 

3. L’ESEGESI DEL BRANO: Detto questo, rimangono alcune questioni aperte riguardo al verso in questione: ▪ 1) Cosa intende Pietro quando parla della possibilità di diventare «partecipi della natura divina»? ▪ 2) A quando fa riferimento questa realtà? (p.es. sta ancora parlando, come nel verso 3, dell’esperienza della conversione, d’un processo, o d’altro?). ▪ 3) In che modo (se lo fa) egli si distanzia dall’adattamento giudaico del pensiero greco?

     Credo che diversi fattori, nel verso stesso e nella lettera, ci portino ad accogliere un aspetto futuro della partecipazione alla natura divina. Se questo è il caso, rispondere alle questioni 1) e 3) non sarà cosa difficile.

 

     ■ 1. Il verso 3 evidenza chiaramente la «chiamata», quindi la rigenerazione. Al verso 4 troviamo che «attraverso queste», cioè la gloria e la virtù (di Dio o Cristo) sperimentate alla nuova nascita, abbiamo ricevuto anche delle promesse «preziose e grandissime» da ereditare. Ma quali? Di solito gli autori neotestamentari introducono all’inizio della lettera temi e concetti che poi svilupperanno nel corso del loro scritto, e così ha fatto Pietro. Infatti…

 

     ■ 2. La lettera affronta la questione della parusia, la certezza del giudizio (2 Pt 2,4-10; 3,5-10), la dissoluzione dell’ordine presente (2 Pt 3,11), la promessa di «nuovi cieli e nuova terra dove abiti la giustizia» (2 Pt 3,13), le reazioni e gli scherni che sarebbero venuti per l’apparente ritardo dell’adempimento di queste promesse (3,4.9).

     Già di per sé le promesse indicano a qualcosa in attesa di realizzazione, il contesto letterario lo conferma (cfr. 1 Pt 1,4-5 «per una eredità incorruttibile... conservata in cielo per voi… per la salvezza che sta per essere rivelata…»).

 

     ■ 3. La frase «perché per mezzo d’esse voi diventaste partecipi…» è ambigua nella NR (meglio la Luzzi, CEI e Nuova Diodati; è comunque la Diodati più corrispondente al testo greco in questo caso). La frase, essendo introdotta in greco da hina non ha senso causale (perché), ma finale (affinché): «affinché diventiate…». Questo è confermato dal fatto che segue un congiuntivo che ha valore finale e futuro (vedi Wallace, Greek grammar beyond the basics, pp. 474-475).

 

     ■ 4. Il tempo (diventaste partecipi) è un aoristo, ma si sa, non è esatto parlare di «tempo», perché l’aoristo è una forma verbale indefinita, scelta dagli scrittori quando questi non volevano precisare l’aspetto temporale, ma semplicemente definire l’azione compiuta (vedi le grammatiche di Mounce, Wallace, Young, Burton, Stevens). Questo significa che non sempre la morfologia d’un verbo al passato significa «tempo» al passato. L’aoristo deve essere quindi tradotto e interpretato seguendo il contesto che nella costruzione presente indica più chiaramente qualcosa di futuro. La frase dovrebbe essere tradotta come fa il Diodati: «acciocché per esse voi siate fatti partecipi…»; in linguaggio più moderno: «affinché mediante queste diventiate partecipi della natura divina…».

 

     ■ 5. «Dopo essere fuggiti alla corruzione», precede l’azione del verbo precedente «diventiate partecipi…». La stessa costruzione si trova nella stessa lettera al verso 2,20: «Se dopo aver fuggito le corruzioni del mondo…». Non si parla quindi di liberazione alla morte, ma alla conversione, alla nuova nascita, e lungo un cammino di purificazione e santificazione (1,5ss e 3,14ss). Quanto al diventare partecipi della natura divina però, almeno in questo brano, è cosa futura, quando cioè Dio adempirà quelle promesse «ricevute» al momento, in cui egli ci chiamò a ravvedimento. Tali promesse riguardano una vita completamente liberata dal «corpo della carne»; vita fatta a immagine di Cristo, secondo «la natura divina». Per «corpo di carne» non s’intende il corpo materiale, ma del principio carnale che anima ora le nostre membra (cfr. Gal 5,17) e che sarà un giorno completamente debellato (cfr. 1 Cor 15). Si ricordi che per la Scrittura, il problema non è il corpo materiale (così lo gnosticismo), ma la «concupiscenza che è nel mondo»! (2 Pt 1,4).

 

     ■ 6. Il capitolo 3 conferma una prospettiva futura di questa esperienza riportata al cap. 1: «E diranno: “Dov’è la promessa della sua venuta? Perché dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano come dal principio della creazione… Poiché dunque tutte queste cose devono dissolversi, quali non dovete essere voi… Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi cieli e nuova terra, nei quali abiti la giustizia» (1,4.11.13).

     In vista d’un giudizio sugli oppositori / persecutori, della dissoluzione dell’attuale ordine cosmico e delle promesse future e gloriose per il credente, i lettori sono esortati a fare in modo di «essere trovati da lui immacolati e irreprensibili…», quindi a vivere una vita di «fuga» dalla concupiscenza (3,14; cfr. 1,5-11 «voi, per questa stessa ragione [le promesse], mettendoci da parte vostra ogni impegno aggiungete alla vostra fede la virtù… in questo modo vi sarà ampiamente concesso l’ingresso nel regno eterno…»). Il credente infatti non «sarà dissolto» per santità di condotta e pietà, anzi, sarà fatto partecipe della «natura divina» (3,11). Questo non significa che il credente sarà assorbito da Dio (panteismo) né tanto meno che sarà un dio «fra gli dèi» (concetto d’apoteosi), ma prenderà parte (concetto di koinonia nel NT) a «qualcosa», e a non tutto, della natura di Dio, ovvero all’incorruttibilità e alla perfezione morale (cfr. 1 Pt 1,4).

 

     ■ 7. Torniamo un attimino alle promesse che «ci sono state elargite». Si tratta d’un solo verbo, dedōrētai, al perfetto. Il perfetto indica qualcosa che è avvenuto al passato, ma che ha / avrà ripercussioni pratiche. Nel nostro caso è chiaro quali queste siano; segue infatti «affinché diventiate partecipi della natura divina…».

     I.H. Marshall osserva giustamente: «Dev’essere ricordato che Pietro sta qui parlando delle promesse divine, e questo conferma che egli sta pensando a qualcosa che deve essere conferito al futuro, senza dubbio quando i credenti compariranno davanti a Dio e a Cristo, e saranno trovati senza macchia e in pace davanti a lui».[17] 

 

 

4. ASPETTI CONCLUSIVI

     ■ Cosa intende allora Pietro per «diventare partecipi della natura divina»? Se siamo riusciti a dimostrare che Pietro si stia riferendo a una promessa che concerne il futuro la quale parla di «incorruttibilità», allora egli sta parlando della risurrezione e glorificazione del credente[18]. Solo allora il figlio di Dio sarà liberato definitivamente dalla corruzione e dalla presenza del peccato, e condividerà uno status di «perfezione morale in un corpo incorruttibile, glorioso», perfezione che ora appartiene solo a Dio. Allora il credente non sarà «meno umano», ma pienamente umano secondo l’immagine del secondo Adamo, Gesù. Non saremo mai semi-dèi, ma veramente uomini secondo il progetto che Dio ha avuto per noi, in Gesù, già dall’eternità.

     Il concetto espresso da Pietro in questi versi non è diverso da quello di «incorruttibilità e immortalità» in Paolo, essendo anch’esso collegato alla risurrezione, al futuro[19] (cfr. Rm 2,7; 1 Cor 15,53). In 1 Corinzi 15 Paolo fonde in una armoniosa simbiosi l’aspetto «temporale e qualitativo» di questo grande e miracoloso evento, parlando di «mortale che riveste immortalità» e di «corruttibile che riveste incorruttibilità». Non si tratta, certo, d’un mera sinonimia, perché «allora sarà adempiuta la parola che è scritta: “La morte è stata sommersa nella vittoria”», ma l’aspetto prevalente resta comunque quello «qualitativo», ovvero «l’incorruttibilità»[20]  (per nulla diverso da quel giudaismo ellenista moderato).

     A meno che non vogliamo sostenere una qualche forma d’annichilimento (così i TdG, ma anche il rispettato John Stott), questa immortalità ha più a che fare con la «qualità» della vita risorta che non con il «tempo»[21]. Che vi sia infatti un qualche tipo di «vita eterna»[22] anche per i perduti è insegnato chiaramente nella Scrittura, ma nessun perduto erediterà l’immortalità alla morte o alla resurrezione. La differenza quindi sta altrove, cioè nella qualità di questo destino.[23]

 

     ■ Pietro sarebbe stato in disaccordo con il resto del NT riguardo al fatto che già oggi siamo una «nuova creazione», che «Dio abita in noi mediante lo Spirito Santo», che «siamo figli di Dio», ecc.? No, affatto! Dopo tutto, nella sua prima lettera egli afferma che il credente può amare di vero cuore perché «è stato rigenerato da un seme incorruttibile» (1 Pt 1,22s). Vi sono tanti riferimenti nel NT riguardo alla condivisione degli attributi comunicabili[24] di Dio (santità, umiltà, amore, ecc.), alla sua vita, alla partecipazione dello Spirito Santo e alle «potenze del mondo futuro»[25] e alla realtà dell’unione con Cristo, ma partecipare alla natura divina ha connotazione «futura e compiuta» rispetto all’esperienza parziale, che il credente fa su questa terra.

     Non possiamo rimarcare abbastanza che Pietro scrive la sua seconda lettera con lo scopo di mettere in guardia da persone che negavano l’adempimento delle promesse di Dio, fra le quali quella del ritorno del Signore, il giudizio degli empi da una parte e la liberazione dei figli di Dio dall’altra (e non mi risulta difficile credere che, anche se non reso esplicito nel testo, questi negassero anche la risurrezione). Egli combatte queste eresie in prospettiva escatologica, enfatizzando se vogliamo, l’aspetto futuro della salvezza promessa.[26]

     Quindi, quanto al posto che Pietro prende nella tensione, di cui abbiamo parlato all’inizio, mi sembra che, almeno in questo brano, nuova nascita e divenire partecipi della natura divina si trovino in relazione di causa ed effetto al futuro e non siano né sinonimi, né contemporanei.

 

     ■ In che modo Pietro di distanzia dall’adattamento giudaico-ellenista del concetto di «partecipare alla natura divina»? Da quanto visto sopra, possiamo concludere che egli prende le distanze anche dal giudaismo ellenista, ma solo in parte: egli sostiene che l’uomo può condividere «l’incorruttibilità di Dio», ma non perché «creato così»[27] e non in questa vita, bensì in virtù delle promesse fatte ai chiamati e in riferimento al futuro «giorno di Dio».

     Non dovremmo perciò aver paura d’adottare un linguaggio futuro per il concetto di «partecipazione alla natura divina», solo per paura d’essere associati a qualche corrente filosofica (gnosticismo, platonismo e quant’altro); Pietro usa la terminologia del tempo, non le sfaccettature, il significato e i concetti che, come visto su, egli va invece a cambiare secondo i suoi obbiettivi.

     Dobbiamo inoltre ricordare che non tutta la filosofia greca e nemmeno la tradizione giudaico-ellenista vedeva questa «deificazione» come assorbimento nella deità (contro il monoteismo), e come «fuga dal corpo materiale»[28]: partecipare alla natura divina non avviene attraverso una fuga dal corpo materiale, ma proprio attraverso la sua trasformazione / resurrezione / glorificazione.[29]

     Il fatto poi che Pietro abbia adottato volentieri questo linguaggio «rischioso e ambiguo», tra l’altro con persone che conoscevano l’insegnamento di Paolo[30] (3,15-16), significa che egli riteneva i suoi lettori già in possesso degli anticorpi contro conclusioni sbagliate e quindi già in grado di fare distinzione fra filosofia e le «promesse di Cristo».

 

     ■ In ultima analisi, in tutta questa matassa non perdiamo la nota pastorale della lettera. È bello considerare con i lettori, che Dio vincola sé stesso alle sue promesse e non cambia mai. Egli opererà a nostro riguardo in modo meraviglioso, per molti versi incomprensibile, ma pur sempre mediante le promesse, che ci sono già state date nella sua Parola. Finalmente saremo liberati, non solo dai nemici esterni, ma soprattutto dal nemico che è in noi e parteciperemo all’incorruttibilità stessa di Dio. Riusciamo a immaginarlo? Mai più un cattivo pensiero, una parola sgarbata, nessuna violenza, né pianto né sofferenza… Dovremmo immaginarlo, ma non solo! Lo scopo della lettera di Pietro è proprio quello di stimolare[31] a vivere oggi in modo santo e puro, in quanto le promesse di cui Pietro parla, rappresentano anche il desiderio di Dio per l’uomo. Egli desidera che già oggi viviamo nella giusta «prospettiva» di ciò che saremo. Che Egli stesso ci aiuti a vivere in modo da rispecchiare, seppure in modo parziale e incompleto, quello che un giorno saremo.

 

«A Lui sia la gloria, ora e in eterno. Amen» (2 Pietro 3,18).



[1]. Per un qualche tipo di tensione anche nel concetto di giustificazione in Paolo vedi Gal 5,4s. Al riguardo la polemica è tutt’ora aperta contro i sostenitori della «New Perspective on Paul».

[2]. Parlare di sfondo non significa rifarsi al «principio etimologico» d’un termine, principio che in realtà crea più problemi di quanti non ne risolva. Anche nel nostro caso, studiare lo sfondo non significa importare nel linguaggio di Pietro tutto ciò, che il termine o la locuzione può aver detto o vuol dire oggi. Molti non vogliono accettare le parole di Pietro in modo semplice e secondo una «normale esegesi», perché importano nella locuzione «partecipi della natura di Dio» tutto il bagaglio filosofico a essa connesso. Ma questo non è assolutamente corretto.

[3]. Vedi Ernst Kasëmann, «An Apologia for Primitive Christian Escatology», in Essays on New Testament Themes, pp. 179s.

[4]. Quando si parla di giudaismo si deve ricordare che esso era molto variegato. Quindi già adottare un linguaggio generalizzato del tipo «il giudaismo era…» è sbagliato. Si veda al proposito E. Ferguson, Backgrounds of Early Christianity, p. 398; N.T. Wright, The New Testament and the people od God, pp. 157s.

[5]. Preso e tradotto da Philo o. A. & C.D. Yonge, The works of Philo: Complete and unabridged, Leg. I, 38 (1993, 1996). Peabody: Hendrickson. Allegorical interpretation 1.38.

[6]. Preso e tradotto da Philo o. A. & C.D. Yonge, The works of Philo: Complete and unabridged, 423 (1996). Peabody: Hendrickson, On Abraam, 144. Vedi anche il verso 104 de «Il decalogo» e il verso 29 del secondo libro de Quaest. et sol su Esodo. Nel primo egli sostiene che anche i pianeti e le stelle condividano la natura divina (evidentemente non vede la materia come qualcosa d’intrinsecamente malvagio) e, nel secondo, che l’uomo diventa «davvero divino» alla morte.

[7]. Cfr. Pseudo-Focilide (103–4) «Perché infatti noi speriamo che i resti di coloro, che sono morti, verranno presto alla luce dalla terra. Dopo di che costoro diverranno dèi».

[8]. Infatti si afferma che è possibile anche mediante pratiche ascetiche, riti esoterici, estasi, ecc.

[9]. Da qui lo gnosticismo dei secoli 2° e successivi.

[10]. Secondo Platone sembra che l’anima, preesistente, nascesse già immortale e rimanesse tale attraverso la trasmigrazione in altri corpi in un ciclo eterno di morte-nascita. Fu Agostino a criticare fortemente questa idea.

[11]. Vedi R. Bauckham, 2 Peter and Jude, p. 180, il quale aggiunge che per il giudaismo ellenista, l’uomo era comunque considerato diverso da Dio in quanto «creato», quindi non eterno e immortale come Dio.

[12]. Era un ossimoro per i greci parlare di deificazione e resurrezione essendo quest’ultima legata a un corpo materiale (vedi Paolo a Atene in Atti 17,32). Questo pensiero si ritrova ancora oggi nel buddismo e nell’induismo per esempio.

[13]. Se non amplificato, visto un ritorno in patria, ma pur sempre sotto dominazione straniera. Questa situazione ha senza dubbio alimentato il desiderio di veder adempiute le antiche promesse riguardo a un re a un regno, un terra e un popolo; si veda lo sforzo dei Maccabei prima e degli Zeloti dopo nel forzare l’arrivo del regno di Dio.

[14]. Per una disamina dei vari «dualismi», greci e giudaici si veda N.T. Wright, p 252ss.

[15]. Ferguson, p. 404.

[16]. Mi chiedo se, pur essendo accaniti oppositori dell’ellenismo, i farisei non abbiano ritenuto un qualche concetto di «incorruttibilità» al peccato già in questa vita visto le accuse rivolte loro dal Signore in più occasioni, e considerato il loro ergersi al di sopra dei «peccatori» (cfr Lc 15). Questo atteggiamento mi ricorda anche i sostenitori odierni del «vangelo della prosperità».

[17]. I.H. Marshall, New Testament Theology, p. 677.

[18]. Benché i credenti che muoiono nel Signore sono già «liberati dal peccato», essi sono comunque in un «stato» d’attesa e d’incompletezza (1 Cor 15,54; 2 Cor 5,4), certamente non paragonabile all’incorruttibilità, sempre e comunque associata nella Bibbia alla presenza d’un corpo sensibile.

[19]. Brown afferma correttamente che «l’immortalità non è un possedimento presente di tutti gli uomini ma una futura acquisizione dei cristiani […]; condividere la natura divina è un’esperienza futura riservata solo a quelli che appartengono a Cristo». C. Brown, NIDNTT, «The Resurrection in Contemporary Theology». Anche Harris è della stessa opinione, quando scrive: «L’uomo non è immortale perché possiede o è un’anima. Egli diventa immortale perché Dio lo trasforma risuscitandolo dai morti». M. J. Harris, «Paul’s View of Death in 2 Corinthians 5,1-10», in R. N. Longenecker and M. C. Tenney, eds., New Dimensions in New Testament Study, p. 53.

[20]. Così anche il concetto di «vita eterna» ricorre principalmente nell’Evangelo di Giovanni; cfr. comunque il parallelismo «perisca… vita eterna» con connotazione futura in Gv 3,16.

[21]. E qui si potrebbe aprire una lunghissima parentesi… Per una disamina del concetto di «immortalità» fra legittimità e abuso, si veda in particolare C. Brown, The Resurrection in Contemporary Theology, NIDNTT.

[22]. La Bibbia usa le espressioni tormento eterno (Ap 14,11), punizione eterna (Mt 25,46) e morte seconda, cioè lo stagno di fuoco nei secoli dei secoli (Ap 20,10.14).

[23]. Se non mi sbaglio allora, il non-credente alla risurrezione rimarrà, e in eterno, in una situazione di «corruzione» e di peccato. L’idea secondo la quale Dio sarebbe ingiusto e non pietoso nel confinare in eterno le persone all’inferno, mentre queste «chiedono perdono», oltre al fatto che non tiene conto del valore eterno del loro rifiuto mentre erano in vita, non considera la situazione irrimediabile, ma «non rinunciabile», nella quale gli empi si ritroveranno. Il giudizio eterno di Dio rimarrà giusto.

[24]. Vi sono attributi che saranno sempre e soltanto di Dio; onnipresenza, onniscienza, eternità (senza inizio ne fine), aseità (noi saremo sempre e comunque dipendenti dalla vita di Dio), ecc.

[25]. Cfr. Ebr. 6,4-5 dove «gustare» non significa assaggiare, ma sperimentare fino in fondo, così come in 2,9. Ma questa è un’altra questione…

[26]. «Pietro sviluppa una distinta escatologia futurista. Anche quando la potente apparizione di Gesù Cristo e l’ingresso nel suo regno eterno (2 Pt 1,11) sono espressamente menzionati, l’interesse è diretto piuttosto alla benedizione futura della salvezza, al premio dei giusti, alla partecipazione nella natura divina (2 Pt 1,4). La dialettica fra salvezza presente e futura ritrovata in Paolo, qui si fonde in una visione della salvezza dell’ultimo giorno». J. Guhrt, in NIDNTT, «Tempo».

[27]. Ad essere sinceri dobbiamo ammettere che anche oggi in molti (se non la maggior parte degli) ambienti cristiani evangelici, l’uomo è ritenuto «immortale», essendo creato a immagine di Dio. Questa deduzione, oltre che essere basata su una comprensione sbagliata dell’essere a immagine di Dio, affonda le sue radici nella filosofia greca piuttosto che nella Scrittura. Secondo la Scrittura l’uomo eredità la morte da Adamo, non l’immortalità (Rm 5,12; 1 Cor 15,22). N.d.R.: Si veda in Nicola Martella, Temi delle origini. Le Origini 1 (Punto°A°Croce, Roma 2006), gli articoli: «L’uomo quale immagine di Dio», pp. 134-145; «Le origini e la morte», pp. 307-311. Cfr. Nicola Martella, «La deliberazione divina 3,22», Esegesi delle origini. Le Origini 2 (Punto°A°Croce, Roma 2006), pp. 256-260 («4. L’ideologia dell’immortalità umana», p. 260; cfr. p. 267).

[28]. W. Kaiser, et al., Hard sayings of the bible, pp. 723s. N.T. Wright, pp. 252s, pp. 145-338.

[29]. D. Moo, 2 Peter and Jude; T. Schreiner, 1, 2 Peter and Jude; R. Bauckham, 2 Peter and Jude; NET Bible notes; Keener, C. S, The IVP Bible background commentary; e in particolare il contributo di J. Starr.

[30]. Se Pietro intendeva parlare semplicemente di «nuova nascita» per esempio, avrebbe avuto molti concetti paolini da adoperare, piuttosto che inserire un concetto così altamente filosofico. Naturalmente, a meno che non volesse parlare di qualcosa d’altro diverso dalla nuova nascita.

[31]. Mentre facciamo, giustamente, la nostra «esegesi», ricordiamo che la quando Dio parla, non sta semplicemente «informando», ma anche «formando»; quando «dice» qualcosa, sta anche «facendo» qualcosa (vedi il concetto della Scrittura come «atto linguistico divino»). In questo sta la «forza illocutiva» della Scrittura. Pietro, come anche gli altri scrittori biblici, era pienamente cosciente di questo fatto quando scrive: «E ritengo che sia giusto, finché sono in questa tenda, di tenervi desti con le mie esortazioni» (2 Pt 1,13).

 

Natura divina fra caparra e adempimento finale {Nicola Martella} (T)

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/A2-Natur-div_incorruttib_2Pt1-3s_Esc.htm

08-03-2010; Aggiornamento: 28-03-2010

 

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