Nella teologia cristiana si parla del «già
qui e non ancora», ossia degli aspetti attuali della salvezza in attesa del
loro compimento finale. La fede dei cristiani biblici è posta, in tal modo, in
una certa
tensione fra il primo e il secondo avvento di Gesù Cristo. Tale
tensione rimane anche nell’interpretazione di brani come 2 Pietro 1,3-4. È
evidente che a seconda se si privilegerà il «già qui» (attualità della salvezza)
o il «non ancora» (salvezza futura), si arriverà a un’altra conclusione riguardo
a tale brano.
L’attuale articolo di Francesco Grassi privilegia una tesi più escatologica. A essa risponde
Tonino Mele nell'articolo «2
Pietro 1,3-4 tra storia ed escatologia» con una tesi più
storica. Ambedue gli articoli sono chiaramente pregevoli, e siamo grati agli
autori per le loro fatiche. Chi è maturo nella fede ed avvezzo allo studio
biblico, troverà nel confronto di ambedue gli articoli un arricchimento e un
buon esercizio di ermeneutica biblica, per mettere alla prova le
proprie capacità interpretative. {Nicola Martella} |
1. INTRODUZIONE AL BRANO: Spesso nell’interpretazione d’un
brano
difficile, la prima cosa che facciamo è quella di ricorrere a possibili brani
paralleli. Questo non è sbagliato in sé, ma può capitare di dire la «cosa giusta
nel posto sbagliato». È certamente vero e giusto che la «Bibbia si spiega con la
Bibbia», ma questo non è sempre necessario e desiderabile, quando il risultato è
che un brano viene appiattito su d’un altro. Soprattutto poi quando una
soluzione più coerente si può avere, pur non andando contro le altre verità
bibliche, partendo da una esegesi strettamente legata al contesto immediato e
letterario (cioè di uno stesso autore).
Rimanere strettamente legati al contesto e al linguaggio, ci dà inoltre la
possibilità di carpire le «sfumature» teologiche (non diverse teologie però!)
d’ogni autore, e solo successivamente d’inquadrarle nel più ampio concetto
teologico-biblico e canonico.
Da quello che mi sembra di capire, infatti, qualunque cosa voglia dire
l’espressione «natura divina», Pietro sta evidenziando «un aspetto» di quella
tensione oramai ben conosciuta in teologia biblica, ovvero del «già qui, ma
non ancora», senza con questo voler negare altri aspetti della medesima,
sostenuti da Paolo per esempio (concetto di giustificazione, rigenerazione,
adozione, ecc.).
Secondo questa tensione possiamo coerentemente dire che siamo già
stati salvati, abbiamo ricevuto la vita eterna, abbiamo le primizie dello
Spirito, siamo stati adottati, siamo stati redenti, ecc. Tuttavia, allo stesso
tempo,
attendiamo ancora la salvezza (Rm 8,24; Eb 9,28), la redenzione (Ef
1,14), la futura adozione (Rm 8,23), la pienezza «di Dio» (1 Cor 15,28); siamo
ancora continuamente trasformati a immagine di Cristo (2 Cor 3,18; cfr. 4,16;
Col 3,10) e saremo solo alla fine simili a lui, pur essendo già ora figli (1 Gv
3,2); saremo liberati, non solo dalla potenza del peccato (Rm 6,18.22; 8,21; Col
1,13), ma anche della sua presenza (Ap 21-22; 1 Cor 15,53); saremo glorificati
(Rm 5,2, 8,17.30), benché già oggi abbiamo la gloria di Dio (Gv 17,22; Rm 3,23);
rivestiamo oggi «un uomo nuovo» (Ef. 4.24), ma solo al futuro «rivestiremo
l’incorruttibile» (1 Cor, 15,53-54).
Ora, la questione è quale aspetto Pietro
vuole evidenziare: passato (rigenerazione / nuova nascita) o futuro
(glorificazione / resurrezione)? Prima d’analizzare il brano e cercare
d’individuare da quale parte della tensione Pietro stia, mi sembra opportuno
dare una veloce occhiata allo sfondo storico e linguistico della frase
«partecipi della natura divina».
2. LO SFONDO DEL BRANO
2.1. IL
GIUDAISMO ELLENISTA: Questo passo è indispensabile perché, a causa delle
evidenti somiglianze con il concetto filosofico di «deificazione», il verso in
questione ha dato origine a non poche interpretazioni nel corso della storia,
molte delle quali hanno visto in esso una «ricaduta»
nel platonismo o almeno in qualche forma di giudaismo ellenista,
sviluppatosi durante il periodo tolemaico e poi seleucide.
Quest’ultimo aveva adottato il linguaggio del tempo, ma lo aveva adattato alla
propria tradizione e teologia. È durante questo periodo che viene prodotto lo
scritto apocrifo Sapienza di Salomone, nel quale troviamo scritto: «Sì,
Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura»
(Sapienza 2,23).
Filone, scrittore e filosofo giudeo vissuto al tempo di Gesù, ci dà un’idea
di questa fusione fra giudaismo ed ellenismo: «Infatti, come potrebbe l’anima
percepire Dio, se Lui non l’avesse ispirata e toccata secondo il suo potere?
Perché l’intelletto umano non avrebbe osato fino al punto da reclamare la natura
divina, se Dio stesso non l’avesse tratto a sé, per quanto fosse possibile alla
mente umana questa trazione, e se Lui non lo avesse formato secondo poteri che
possono essere compresi».
«Anche i re mi sembra rispecchino la natura divina in questo particolare, e
agiscano allo stesso modo, concedendo personalmente il loro favore, ma
infliggendo il loro castigo mediante gli altri».
Si ritrova spesso una sorta di fusione della dottrina della resurrezione
con quella della deificazione,
pur con alcune differenze. Mentre per i giudei la resurrezione era qualcosa di
pertinente al futuro (più precisamente «all’ultimo giorno»; cfr Gv. 5,39-54;
11,24), la deificazione era qualcosa d’ottenibile attraverso un «processo» di
divinizzazione, di solito
mediante la «gnosi»,
conoscenza mistica e nascosta ai non adepti. Questo processo sarebbe culminato
soltanto alla morte e avrebbe visto la sua piena realizzazione quando l’essere
umano sarebbe stato «assorbito» dalla divinità e ne avrebbe ereditato
l’immortalità.
Ne viene comunque che anche in alcuni ambiti del giudaismo l’uomo pio poteva già
in questa vita «partecipare alla natura divina» (cfr. Filone,
Interpretazione allegorica, 1,38).
Il giudaismo non aveva però abbandonato il suo
monoteismo; pertanto rimaneva un solo Dio e una chiara distinzione con la
sua creatura.
L’uomo non diventava in nessun senso un semi-dio, ma era creato in modo da
condividere alcuni attributi della divinità, quali l’immortalità e
«l’incorruttibilità». Inoltre, non si ritrova nel giudaismo l’enfasi più forte
del platonismo che vede la deificazione come qualcosa di possibile solo
attraverso la «fuga dal mondo materiale».
Infatti, anche in epoca post-esilica, il giudaismo aveva ritenuto
la «sua» più forte enfasi in una speranza futura molto terrena, seppur
incorruttibile.
In ultima analisi quindi, il giudaismo ellenista si distanzia da quel platonismo
estremo,
ma come abbiamo già osservato, adotta il linguaggio (cosa inevitabile anche per
un popolo esclusivista quale quell’ebraico; si ricordi che è in epoca tolemaica
che vien prodotta la LXX, traduzione / parafrasi in greco dell’AT)
e la possibilità di condividere l’immortalità di Dio in questa vita, diventando
partecipi della sua natura «incorruttibile e immortale».
2.2.
RILEVANZA PER IL NT: Cosa dire, dunque, di Pietro e della frase «diventaste
partecipi della natura divina»? Non si può evadere dal linguaggio filosofico
usato e dalle sue sfumature; esso infatti ricorda molto un qualche concetto
greco di «deificazione». Benché spesso adottato per sostenere tale concetto
(vedi tradizione ortodossa, alcuni circoli carismatici, fino anche alla new age
e al buddismo), Pietro però prende subito le distanze dalle religioni /
filosofie greche estreme. Infatti, mentre per queste ultime il problema era il
mondo materiale, Pietro specifica che il problema è la «concupiscenza che è
nel mondo» (1,4), l’iniquità degli uomini (capitolo 2), l’assenza di santità
(3,11) e l’assenza di giustizia (3,13). Inoltre, anche se in 2 Pietro 1,3 si
ritrova il termine «conoscenza» (gr. epignosis), questa non è una mera
conoscenza teorica o un fusione mistica con la divinità bensì una conoscenza
personale di Dio «in Cristo», mediante la chiamata, che ci è stata rivolta.
3. L’ESEGESI DEL BRANO: Detto questo, rimangono alcune questioni
aperte riguardo al verso in questione: ▪ 1) Cosa intende Pietro quando parla
della possibilità di diventare
«partecipi della natura divina»? ▪ 2) A quando fa riferimento questa
realtà? (p.es. sta ancora parlando, come nel verso 3, dell’esperienza della
conversione, d’un processo, o d’altro?). ▪ 3) In che modo (se lo fa) egli si
distanzia dall’adattamento giudaico del pensiero greco?
Credo che diversi fattori, nel verso stesso e nella lettera, ci portino ad
accogliere un aspetto futuro della partecipazione alla natura divina. Se
questo è il caso, rispondere alle questioni 1) e 3) non sarà cosa difficile.
■ 1. Il verso 3 evidenza chiaramente la «chiamata», quindi la rigenerazione. Al
verso 4 troviamo che «attraverso queste», cioè la gloria e la virtù (di Dio o
Cristo) sperimentate alla nuova nascita, abbiamo ricevuto anche delle promesse «preziose
e grandissime» da ereditare. Ma quali? Di solito gli autori neotestamentari
introducono all’inizio della lettera temi e concetti che poi svilupperanno nel
corso del loro scritto, e così ha fatto Pietro. Infatti…
■ 2. La lettera affronta la questione della
parusia, la certezza del giudizio (2 Pt 2,4-10; 3,5-10), la dissoluzione
dell’ordine presente (2 Pt 3,11), la promessa di «nuovi cieli e nuova terra
dove abiti la giustizia» (2 Pt 3,13), le reazioni
e gli scherni che sarebbero venuti per l’apparente ritardo dell’adempimento
di queste promesse (3,4.9).
Già di per sé le promesse indicano a qualcosa in attesa di realizzazione, il
contesto letterario lo conferma (cfr. 1 Pt 1,4-5 «per una eredità
incorruttibile... conservata in cielo per voi… per la salvezza che sta per
essere rivelata…»).
■ 3. La frase «perché per mezzo d’esse voi diventaste partecipi…»
è ambigua nella NR (meglio la Luzzi, CEI e Nuova Diodati; è comunque la Diodati
più corrispondente al testo greco in questo caso). La frase, essendo introdotta
in greco da hina non ha senso causale (perché), ma finale (affinché): «affinché
diventiate…». Questo è confermato dal fatto che segue un congiuntivo che ha
valore finale e futuro (vedi Wallace,
Greek grammar beyond the basics, pp. 474-475).
■ 4. Il tempo (diventaste partecipi) è un aoristo, ma si sa, non è esatto
parlare di «tempo», perché l’aoristo è una forma verbale indefinita, scelta
dagli scrittori quando questi non volevano precisare l’aspetto temporale, ma
semplicemente definire l’azione compiuta (vedi le grammatiche di Mounce,
Wallace, Young, Burton, Stevens). Questo significa che non sempre la morfologia
d’un verbo al passato significa «tempo» al passato. L’aoristo deve essere quindi
tradotto e interpretato seguendo il contesto che nella costruzione presente
indica più chiaramente qualcosa di futuro. La frase dovrebbe essere
tradotta come fa il Diodati: «acciocché per esse voi siate fatti partecipi…»;
in linguaggio più moderno: «affinché mediante queste diventiate partecipi
della natura divina…».
■ 5. «Dopo essere fuggiti alla corruzione», precede l’azione del
verbo precedente «diventiate partecipi…». La stessa costruzione si trova
nella stessa lettera al verso 2,20: «Se dopo aver fuggito le corruzioni del
mondo…». Non si parla quindi di liberazione alla morte, ma alla conversione,
alla nuova nascita, e lungo un cammino di purificazione e santificazione (1,5ss
e 3,14ss). Quanto al diventare partecipi della natura divina però, almeno in
questo brano, è cosa futura, quando cioè Dio adempirà quelle promesse
«ricevute» al momento, in cui egli ci chiamò a ravvedimento. Tali promesse
riguardano una vita completamente liberata dal «corpo della carne»; vita
fatta a immagine di Cristo, secondo «la natura divina». Per «corpo di carne»
non s’intende il corpo materiale, ma del principio carnale che anima ora le
nostre membra (cfr. Gal 5,17) e che sarà un giorno completamente debellato (cfr.
1 Cor 15). Si ricordi che per la Scrittura, il problema non è il corpo materiale
(così lo gnosticismo), ma la «concupiscenza che è nel mondo»! (2 Pt 1,4).
■ 6. Il capitolo 3 conferma una prospettiva futura di questa esperienza
riportata al cap. 1: «E diranno: “Dov’è la promessa della sua venuta? Perché
dal giorno in cui i padri si sono addormentati, tutte le cose continuano come
dal principio della creazione”… Poiché dunque tutte queste cose devono
dissolversi, quali
non dovete essere voi… Ma, secondo la sua promessa, noi aspettiamo nuovi
cieli e nuova terra, nei quali
abiti la giustizia…» (1,4.11.13).
In vista d’un giudizio sugli oppositori / persecutori, della dissoluzione
dell’attuale ordine cosmico e delle promesse future e gloriose per il credente,
i lettori sono esortati a fare in modo di «essere trovati da lui immacolati e
irreprensibili…», quindi a vivere una vita di «fuga» dalla concupiscenza
(3,14; cfr. 1,5-11 «voi, per questa stessa ragione [le promesse], mettendoci
da parte vostra ogni impegno aggiungete alla vostra fede la virtù… in questo
modo vi sarà ampiamente concesso l’ingresso nel regno eterno…»). Il credente
infatti non «sarà dissolto» per santità di condotta e pietà, anzi, sarà fatto
partecipe della «natura divina» (3,11). Questo non significa che il credente
sarà assorbito da Dio (panteismo) né tanto meno che sarà un dio «fra gli dèi»
(concetto d’apoteosi), ma prenderà parte (concetto di koinonia nel NT) a
«qualcosa», e a non tutto, della natura di Dio, ovvero
all’incorruttibilità e alla perfezione morale (cfr. 1 Pt 1,4).
■ 7. Torniamo un attimino alle promesse che «ci sono state elargite».
Si tratta d’un solo verbo, dedōrētai, al perfetto. Il perfetto indica
qualcosa che è avvenuto al passato, ma che ha / avrà ripercussioni pratiche. Nel
nostro caso è chiaro quali queste siano; segue infatti «affinché diventiate
partecipi della natura divina…».
I.H. Marshall osserva giustamente: «Dev’essere ricordato che Pietro sta qui
parlando delle promesse divine, e questo conferma che egli sta pensando a
qualcosa che deve essere conferito al futuro, senza dubbio quando i credenti
compariranno davanti a Dio e a Cristo, e saranno trovati senza macchia e in pace
davanti a lui».
4. ASPETTI CONCLUSIVI
■ Cosa intende allora Pietro per «diventare partecipi della natura
divina»? Se siamo riusciti a dimostrare che Pietro si stia riferendo a una
promessa che concerne il futuro la quale parla di «incorruttibilità», allora
egli sta parlando della risurrezione e glorificazione del credente.
Solo allora il figlio di Dio sarà liberato definitivamente dalla corruzione e
dalla presenza del peccato, e condividerà uno status di «perfezione morale in
un corpo incorruttibile, glorioso», perfezione che ora
appartiene solo a Dio. Allora il credente non sarà «meno umano», ma pienamente
umano secondo l’immagine del secondo Adamo, Gesù. Non saremo mai semi-dèi, ma
veramente uomini secondo il progetto che Dio ha avuto per noi, in Gesù, già
dall’eternità.
Il concetto espresso da Pietro in questi versi non è diverso da quello di «incorruttibilità
e immortalità» in Paolo, essendo anch’esso collegato alla risurrezione, al
futuro
(cfr. Rm 2,7; 1 Cor 15,53). In 1 Corinzi 15 Paolo fonde in una armoniosa
simbiosi l’aspetto «temporale e qualitativo» di questo grande e miracoloso
evento, parlando di «mortale che riveste immortalità» e di «corruttibile
che riveste incorruttibilità». Non si tratta, certo, d’un mera sinonimia,
perché «allora sarà adempiuta la parola che è scritta: “La morte è stata
sommersa nella vittoria”», ma l’aspetto prevalente resta comunque quello
«qualitativo», ovvero «l’incorruttibilità»
(per nulla diverso da quel giudaismo ellenista moderato).
A meno che non vogliamo sostenere una qualche forma d’annichilimento (così i
TdG, ma anche il rispettato John Stott), questa immortalità ha più a che fare
con la «qualità» della vita risorta che non con il «tempo».
Che vi sia infatti un qualche tipo di «vita eterna»
anche per i perduti è insegnato chiaramente nella Scrittura, ma nessun perduto
erediterà l’immortalità alla morte o alla resurrezione. La differenza quindi sta
altrove, cioè nella qualità di questo destino.
■ Pietro sarebbe stato in disaccordo con il resto del NT riguardo al
fatto che già oggi siamo una «nuova creazione», che «Dio abita in noi mediante
lo Spirito Santo», che «siamo figli di Dio», ecc.? No, affatto! Dopo tutto,
nella sua prima lettera egli afferma che il credente può amare di vero cuore
perché «è stato rigenerato da un seme
incorruttibile» (1 Pt 1,22s). Vi sono tanti riferimenti nel NT
riguardo alla condivisione degli attributi comunicabili
di Dio (santità, umiltà, amore, ecc.), alla sua vita, alla partecipazione dello
Spirito Santo e alle «potenze del mondo futuro»
e alla realtà dell’unione con Cristo, ma partecipare alla natura divina ha
connotazione «futura e compiuta» rispetto all’esperienza parziale, che il
credente fa su questa terra.
Non possiamo rimarcare abbastanza che Pietro scrive la sua seconda lettera con
lo scopo di mettere in guardia da persone che negavano l’adempimento delle
promesse di Dio, fra le quali quella del ritorno del Signore, il giudizio degli
empi da una parte e la liberazione dei figli di Dio dall’altra (e non mi risulta
difficile credere che, anche se non reso esplicito nel testo, questi negassero
anche la risurrezione). Egli combatte queste eresie in prospettiva
escatologica, enfatizzando se vogliamo, l’aspetto futuro della salvezza
promessa.
Quindi, quanto al posto che Pietro prende nella tensione, di cui abbiamo parlato
all’inizio, mi sembra che, almeno in questo brano, nuova nascita e divenire
partecipi della natura divina si trovino in relazione di causa ed effetto al
futuro e non siano né sinonimi, né contemporanei.
■ In che modo Pietro di distanzia dall’adattamento giudaico-ellenista del
concetto di «partecipare alla natura divina»? Da quanto visto sopra,
possiamo concludere che egli prende le distanze anche dal giudaismo ellenista,
ma solo in parte: egli sostiene che l’uomo può condividere «l’incorruttibilità
di Dio», ma non perché «creato così»
e non in questa vita, bensì in virtù delle promesse fatte ai chiamati e in
riferimento al futuro «giorno di Dio».
Non dovremmo perciò aver paura d’adottare un linguaggio futuro per il concetto
di «partecipazione alla natura divina», solo per paura d’essere associati a
qualche corrente filosofica (gnosticismo, platonismo e quant’altro); Pietro usa
la terminologia del tempo, non le sfaccettature, il significato e i concetti
che, come visto su, egli va invece a cambiare secondo i suoi obbiettivi.
Dobbiamo inoltre ricordare che non tutta la filosofia greca e nemmeno la
tradizione giudaico-ellenista vedeva questa «deificazione» come assorbimento
nella deità (contro il monoteismo), e come «fuga dal corpo materiale»:
partecipare alla natura divina non avviene attraverso una fuga dal corpo
materiale, ma proprio attraverso la sua trasformazione / resurrezione /
glorificazione.
Il fatto poi che Pietro abbia adottato volentieri questo linguaggio «rischioso e
ambiguo», tra l’altro con persone che conoscevano l’insegnamento di Paolo
(3,15-16), significa che egli riteneva i suoi lettori già in possesso degli
anticorpi contro conclusioni sbagliate e quindi già in grado di fare distinzione
fra filosofia e le «promesse di Cristo».
■ In ultima analisi, in tutta questa matassa non perdiamo la nota
pastorale della lettera. È bello considerare con i lettori, che Dio vincola sé
stesso alle sue promesse e non cambia mai. Egli opererà a nostro riguardo in
modo meraviglioso, per molti versi incomprensibile, ma pur sempre mediante le
promesse, che ci sono già state date nella sua Parola. Finalmente saremo
liberati, non solo dai nemici esterni, ma soprattutto dal nemico che è in noi
e parteciperemo all’incorruttibilità stessa di Dio. Riusciamo a immaginarlo? Mai
più un cattivo pensiero, una parola sgarbata, nessuna violenza, né pianto né
sofferenza… Dovremmo immaginarlo, ma non solo! Lo scopo della lettera di Pietro
è proprio quello di stimolare
a vivere oggi in modo santo e puro, in quanto le promesse di cui Pietro
parla, rappresentano anche il desiderio di Dio per l’uomo. Egli desidera
che già oggi viviamo nella giusta «prospettiva» di ciò che saremo. Che Egli
stesso ci aiuti a vivere in modo da rispecchiare, seppure in modo parziale e
incompleto, quello che un giorno saremo.
«A
Lui sia la gloria, ora e in eterno. Amen» (2 Pietro 3,18).
[5]. Preso e tradotto da Philo o. A. &
C.D. Yonge, The works of Philo: Complete and unabridged, Leg. I, 38
(1993, 1996).
Peabody: Hendrickson. Allegorical interpretation 1.38.
[6]. Preso e tradotto da
Philo o. A. & C.D. Yonge,
The works of Philo: Complete and unabridged,
423 (1996). Peabody: Hendrickson, On Abraam, 144.
Vedi anche il verso 104 de «Il decalogo» e il verso 29
del secondo libro de Quaest. et sol su Esodo. Nel primo egli sostiene che
anche i pianeti e le stelle condividano la natura divina (evidentemente non vede
la materia come qualcosa d’intrinsecamente malvagio) e, nel secondo, che l’uomo
diventa «davvero divino» alla morte.
►
Natura divina fra caparra e adempimento finale {Nicola Martella} (T)
► URL:
http://puntoacroce.altervista.org/_Dot/A2-Natur-div_incorruttib_2Pt1-3s_Esc.htm
08-03-2010; Aggiornamento: 28-03-2010 |