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■ Aspetti connessi.
 
Il libro è adatto primariamente per conduttori di chiesa, per diaconi e per collaboratori attivi; si presta pure per il confronto fra leader e per la formazione dei collaboratori. È un libro utile per le «menti pensanti» che vogliano rinnovare la propria chiesa, mettendo a fuoco le cose essenziali dichiarate dal NT.

 

Vedi al riguardo la recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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IL POTERE DELLE CHIAVI

La remissione dei peccati nel Catechismo cattolico e nella Bibbia

 

 di Alfredo Terino

 

1. Il sacramento della confessione nel Catechismo Cattolico

2. Il potere delle chiavi

3. «Autorità conferita»

4. Contesto di Giovanni 20,23

5. Remissione «giudiziale» e remissione «filiale»

6. L’attuazione della remissione o della ritenzione

7. Potere dichiarativo

8. Conclusione

 

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1.  IL SACRAMENTO DELLA CONFESSIONE NEL CATECHISMO CATTOLICO: Sarà utile all’inizio citare qualche espressione del Catechismo della Chiesa Cattolica (1993 e Compendio del 2005), in quanto, sotto la sezione «Il Sacramento della Penitenza e della Riconciliazione», viene espressa chiaramente l’interpretazione cattolica del cosiddetto «potere delle chiavi». Le domande e risposte del Catechismo serviranno da sfondo per lo studio che intraprendiamo. Riportiamo di seguito quelle più rilevanti, adattandole solo nella forma.

     ■ Come viene chiamato questo Sacramento?: Esso viene chiamato Sacramento della Penitenza, della Riconciliazione e del Perdono, della Confessione, della Conversione. (296)

     ■ Perché esiste il Sacramento della Riconciliazione dopo il Battesimo?: Poiché la vita nuova nella grazia, ricevuta nel Battesimo, non ha soppresso la debolezza della natura umana, né l’inclinazione al peccato (cioè la concupiscenza), Cristo ha istituito questo Sacramento per la conversione dei battezzati, che si sono allontanati da lui con il peccato. (297)

     ■ Quando fu istituito questo Sacramento?: Il Signore risorto ha istituito questo Sacramento quando, la sera di Pasqua, si mostrò ai suoi Apostoli e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimettete resteranno non rimessi» (Gv 20,22-23). (298)

     Rendendo gli Apostoli partecipi del suo proprio potere di perdonare i peccati, il Signore dà loro anche l’autorità di riconciliare i peccatori con la Chiesa.

     Tale dimensione ecclesiale del loro ministero trova la sua più chiara espressione nella solenne parola di Cristo a Simon Pietro: «A te darò le chiavi del regno dei cieli, e tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli» (Mt 16,19). Questo incarico di legare e di sciogliere, che è stato dato a Pietro, risulta essere stato pure concesso al collegio degli Apostoli, unito col suo capo. (1444)

     ■ Che cosa sono le indulgenze?: Le indulgenze sono la remissione dinanzi a Dio della pena temporale meritata per i peccati, già perdonati quanto alla colpa, che il fedele, a determinate condizioni, acquista, per se stesso o per i defunti mediante il ministero della Chiesa, la quale, come dispensatrice della redenzione, distribuisce il tesoro dei meriti di Cristo e dei Santi. (312)

 

 

2.  IL POTERE DELLE CHIAVI: Il termine «potere delle chiavi» viene usato comunemente per designare l’autorità data ai discepoli da parte del Signore di «legare» o «sciogliere» le delibere e di «rimettere» o «ritenere» i peccati, come è scritto in due degli Evangeli, cioè in Matteo 16,19; 18,18 e in Giovanni 20,23. Questa autorità si attualizza in contesti e con mezzi distinti: in un contesto di evangelizzazione il mezzo è la predicazione, con la quale il regno di Dio si apre ai penitenti e si chiude agli impenitenti; nel contesto di chiesa locale, invece, il mezzo è la disciplina verso chi sbaglia, con la sua esclusione o riammissione nella comunità. In ambedue i casi si presuppone il ravvedimento o non ravvedimento, con l’esito della remissione o ritenzione dei peccati, in base a come ciascuno reagisce di fronte alla parola di Cristo trasmessagli.

     Nella sua concezione delle «chiavi» la Chiesa Cattolica ha trovato, attraverso i secoli, nei versetti in questione la base per affermarsi come «Dispensatrice della Redenzione». Infatti le domande e le risposte del Catechismo Cattolico (riportate sopra) sul tema della confessione vorrebbero inculcare un dogma che, nella sua applicazione, può avere dei risvolti non trascurabili. Il Papa, per esempio, in certe occasioni può generosamente elargire (a certe condizioni, si capisce) un’indulgenza plenaria in occasione di Giornate Mondiali della Gioventù Cattolica o di una festa mariana.

     Per comprovare l’interpretazione della Chiesa Cattolica sul potere delle chiavi e quindi confermare il sacramento della confessione e la dottrina delle indulgenze con tutto ciò che vi è di connesso, ha un’importanza determinante il testo dell’Evangelo di Giovanni (20,23), perché, riguardo alla remissione o non remissione dei peccati, è il più esplicito. Ecco il versetto come viene riportato nel Catechismo: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi,e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi» (Giovanni 20,23).

     Le parole di Gesù sembrano inequivocabili: gli apostoli, e implicitamente i loro successori, avranno effettivamente il potere di rimettere o ritenere i peccati; un’analisi più attenta di questo e di altri brani pertinenti, però, sconsiglia questa interpretazione letterale e autoritaria. Nel Nuovo Testamento, infatti, non c’è traccia dell’uso di un tale potere da parte di un apostolo o di qualcun altro; ci sono alcuni casi nei quali gli apostoli esercitano un’autorità speciale, ma in nessun caso essi rimettono o ritengono i peccati, con o senza l’invocazione del nome di Dio. Nelle parole degli apostoli non c’è poi indicazione che essi siano stati consapevoli di possedere questo potere e, come tutti i Giudei, essi avevano la profonda convinzione che Dio — e soltanto Dio — poteva perdonare i peccati. Questa considerazione basata sui «silenzi» del Nuovo Testamento potrebbe non essere decisiva, ma sicuramente invita a un esame più approfondito della testimonianza biblica.

 

 

3.  «AUTORITÀ CONFERITA»: Le parole di Giovanni 20,23 esprimono il principio di «autorità conferita», che si trova in molte parti della Bibbia: è il principio che caratterizza l’azione di Mosè verso il Faraone d’Egitto, quando nel nome di Jahwè egli esige la liberazione degli Ebrei; si evidenzia pure negli esorcismi e nelle guarigioni operate dagli apostoli; è lo stesso principio che viene evocato ogni qualvolta un cristiano prega il Padre nel nome di Gesù.

     I due riferimenti dell’Evangelo di Matteo sopra indicati (16,19; 18,18), parlando anch’essi dell’autorità conferita, sono particolarmente analoghi a Giovanni 20,23. Li riportiamo per esteso con brevi commenti.

 

3.1.  MATTEO 16,19: «Ed io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che avrai legato sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che avrai sciolto sulla terra, sarà sciolto nei cieli».

     Prima di entrare nel merito di queste parole, è importante rendersi conto di ciò che le prepara, cioè dei versetti immediatamente precedenti (16-18). In essi troviamo il riconoscimento della divinità di Gesù da parte di Pietro (v. 16), al quale Gesù risponde (v. 17) confermando la verità di ciò che Pietro ha detto riguardo a chi Egli è. Gesù è la Roccia (pétra), il grande e immobile fondamento su cui l’edificio della Chiesa sarà costruito (es. di «roccia» nell’AT: Dt 32,4 [tsur] e nel NT: Mt 7,25 [pétra]). Nelle parole, «sopra questa roccia io edificherò la mia chiesa», riferite alla sua persona come Roccia, Gesù si rifà alla Roccia come titolo per Dio e cosi accentua la realtà della sua divina natura (il fatto che in Matteo 16,18 Cristo stesso è la Roccia fu sostenuto anche da certi padri della chiesa come Gerolamo e Agostino).

     Dopo aver parlato di Se stesso, Gesù, dichiara a Pietro chi è lui. Pietro è una pietra (pétros), cioè un oggetto relativamente piccolo e mobile. Nelle parole di Gesù in questo momento, ma anche in altre occasioni, è implicito che Pietro, nella Chiesa delle origini, era unico fra gli apostoli (cfr. Gv 1,42 [kēfâs in aramaico è uguale a pétros in greco]; Lc 22,31s; Gv 21,15ss.). Pietro aveva infatti un ruolo importante come leader, sebbene in modo non permanente; in ogni caso non era «più pietra» degli altri apostoli, perché insieme a loro era una delle «pietre da fondamento» poste fermamente sulla Roccia (Cristo) che, in ultima analisi, era e rimane l’unico fondamento (ved. 1 Cor 3,10s).

     Cristo è anch’Egli una pietra vivente insieme a tutti i credenti, nell’edificio che è la sua Chiesa. Con gli apostoli e i profeti è una «pietra da fondamento» e, fra esse, è «la testata d’angolo» (1 Pt 2,4-7). Così Cristo è la Roccia divina (pétra), il fondamento unico della Chiesa, e allo stesso tempo è anche una «pietra fondante» [akrogōniaîos líthos «pietra di base o di chiusura», 1 Pt 2,6; cfr. v. 4 líthos zônta «pietra vivente»; N.d.R.], quella più importante nella struttura dell’edificio.  L’unione di Cristo con i suoi ne accentua la sua natura umana.

     In stretta connessione con la sua aperta confessione di Gesù quale il Cristo, il Figlio del Dio vivente, nel giorno di Pentecoste Pietro riceve il dono dello Spirito Santo e diventa, insieme a tutti i credenti, una pietra vivente nella Chiesa di Cristo. La Chiesa continuerà a essere edificata per mezzo di uomini che, come Pietro, fanno la stessa confessione, diventando così a loro volta pietre viventi che si aggiungono all’edificio (Ef 2,19-22; 1 Pt 2,4-7)

     A Pietro, come ad ogni altro discepolo, saranno date le chiavi del regno dei cieli che ormai, con la venuta di Cristo, non rappresentano più la vera conoscenza della legge mosaica in contrasto con le tradizioni e interpretazioni legalistiche degli scribi e dei farisei (cfr. Mt 23,13; Lc 11,52), ma la conoscenza perfetta dell’Evangelo a cui la legge di Mosè accennava (Gv 5,39). Fu dato a Pietro il privilegio di usare le chiavi per primo ed egli, in effetti, aprì la porta della fede prima ai Giudei (nel giorno di Pentecoste; Atti 2,14ss ) e poi ai Gentili (nella casa di Cornelio; Atti 10,34ss; 15). L’espressione «legare e sciogliere» doveva essere facilmente compresa, perché veniva usata per designare l’attività che i dottori della legge mosaica svolgevano nel determinare ciò che era «proibito» e ciò che era «permesso» nella vita religiosa dei Giudei. I dottori della legge avevano una grande autorità ma i discepoli, attraverso la predicazione e l’insegnamento della parola di Cristo, erano destinati a esercitarne una ancora maggiore. Tuttavia, l’espressione dev’essere intesa non in senso assoluto; infatti a un certo punto Pietro stesso — che con il suo esempio dà un insegnamento in forma pratica — mise in forse una verità fondamentale dell’Evangelo (Gal 2,11ss) e per questo fu ripreso da Paolo; è chiaro quindi che solo ciò che sulla terra è legato o sciolto nella volontà di Dio sarà validamente legato o sciolto anche in cielo.

 

3.2.  MATTEO 18,18: «In verità vi dico che tutte le cose che avrete legato sulla terra, saranno legate nel cielo; e tutte le cose che avrete sciolte sulla terra, saranno sciolte nel cielo».

     La prima frase in Matteo, quella di 16,19 analoga a Giovanni 20,23, che abbiamo visto essere rivolta a Pietro, è ora indirizzata a tutta la comunità dei discepoli. Qui è indicato un secondo significato dell’espressione «legare e sciogliere», che è quello di «escludere» da una comunità o di «riammettere» in essa. È presumibile che Gesù prospetti per il futuro una situazione di tipo sinagogale, con l’autonomia di ogni assemblea di fedeli. Ad ogni modo, il riferimento specifico del versetto nel suo contesto (vv. 15-20) ha a che fare con il regolamento della vita interna della comunità; non si tratta dell’autorità conferita ad una singola persona, ma di quella attribuita all’intera collettività. Con la sua promessa, Gesù vuol rassicurare i responsabili della comunità riguardo all’effettiva autorità che avranno nell’esercitare la disciplina nell’ambito della chiesa locale. I conduttori della comunità non potranno agire a loro propria discrezione, ma solo in sintonia con la volontà di Dio; soltanto così le loro disposizioni avranno validità come se emesse da Dio stesso.

     Il principio di autorità conferita, espresso in Matteo 18,18, trova la sua applicazione pratica specialmente in brani come Atti 15,22-29 e in 1 Corinzi 5,1-5. Nel caso di Atti 15 (il cosiddetto «Concilio di Gerusalemme») la concordia non arriva senza obiezioni, ma dopo una discussione alquanto accesa (vv. 2.6s); solo alla fine si realizza la sintonia tra i convenuti e con lo Spirito Santo.

 

4.  CONTESTO DI GIOVANNI 20,23: È importante rendersi conto del fatto che le parole di Giovanni 20,23 — «A chi rimetterete [...] e a chi non li rimetterete [...]» — fanno parte del mandato di evangelizzare il mondo rivolto agli apostoli e agli altri discepoli presenti (Lc 24,33). Tale mandato si trova alla fine del corpo di ciascun Evangelo ma, sebbene sia comune a tutti e quattro, nessuna versione è identica all’altra (quella di Matteo è collocata perfino in un momento diverso dalle altre tre). Dall’insieme dei quattro Evangeli, però, emergono sei elementi che dovevano costituire la sostanza del mandato originale:

     ■ 1) L’ordine di andare a evangelizzare (Mt 28,19; Mc 16,15; Lc 24,47; Gv 20,21).

     ■ 2) La predicazione del ravvedimento e del perdono dei peccati (Mc 16,16; Lc 24,47).

     ■ 3) La potenza dello Spirito Santo per adempiere la missione (Lc 24,49; Gv 20,22).

     ■ 4) La potestà conferita per eseguire il mandato con autorità (Mt 28,18; Gv 20,21.23).

     ■ 5) Il battesimo per chi accoglie l’Evangelo (Mt 28,19; Mc 16,16).

     ■ 6) Le alternative prospettate: l’essere salvato o l’essere condannato; peccati rimessi o peccati ritenuti (Mc 16,16; Gv 20,23).

 

Dal momento che Giovanni 20,23 si trova nel contesto del mandato di evangelizzazione (come indica il confronto con gli altri Evangeli), possiamo aspettarci che l’esercizio dell’autorità, così evidente nel brano, sia accompagnato anche da altri elementi, come la predicazione evangelistica e il battesimo. Infatti è proprio ciò che constatiamo in maniera significativa nei racconti di conversione descritti negli Atti degli Apostoli. Quindi, quando Gesù pronunciò le parole riportate in Giovanni 20,23 si riferiva chiaramente ai non evangelizzati, cioè a persone mai convertite e quindi non ancora battezzate. Al contrario, il Catechismo Cattolico afferma: «Cristo ha istituito questo Sacramento [basato su Gv 20,23] per la conversione dei battezzati, che si sono allontanati da lui con il peccato».

 

 

5.  REMISSIONE «GIUDIZIALE» E REMISSIONE «FILIALE»: Al momento dell’incontro efficace con la parola dell’Evangelo, chi l’ascolta riceve il dono della salvezza (Ef 2,8), sperimentando la remissione e la purificazione dei peccati (Tt 3,4-7), benefici collegati alla conversione. Nella Bibbia questa esperienza è vista come completa, unica e irripetibile. Elenchiamo di seguito alcuni versetti che evidenziano l’uso del termine «remissione-purificazione» in questo senso.

     ■ «“Fratelli, che dobbiamo fare?”. Allora Pietro disse loro: “Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei peccati”» (Atti 2,37s).

     ■ «Vi sia dunque noto fratelli, che per mezzo di Lui vi è annunziato il perdono dei peccati e che mediante Lui, chiunque crede è giustificato di tutte le cose di cui non avete potuto essere giustificati mediante la legge di Mosè» (Atti 13,38s).

     ■ «[Dio] non ha fatto alcuna differenza tra noi e loro, avendo purificato i loro cuori mediante la fede» (Atti 15,9).

     ■ «Non vi ingannate: né i fornicatori, né gli idolatri, [...] erediteranno il regno di Dio. Or tali eravate già alcuni di voi; ma siete stati lavati, ma siete stati santificati, ma siete stati giustificati nel nome del Signore Gesù e mediante lo Spirito del nostro Dio» (1 Corinzi 6,9ss).

     ■ «Scrivo a voi, figlioli, perché vi sono stati rimessi i peccati in virtù del suo nome» (1 Giovanni 2,12).

 

C’è però un secondo uso del termine, quello che prospetta il perdono dei peccati commessi dopo la conversione e il battesimo. Per chiarezza, potremmo definire la sopraccitata remissione legata alla conversione come «remissione giudiziale»; mentre questa remissione, sperimentata dopo la conversione e quindi dopo il battesimo, potremmo definirla come «remissione filiale». Tanti sono i brani che esprimono la remissione filiale; ne riportiamo due in qualche modo riassuntivi:

     ■ «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da rimetterci i peccati, e purificarci da ogni iniquità» (1 Giovanni 1,8s).

     ■ «Voi dunque pregate in questa maniera: “Padre nostro, che sei nei cieli [...] rimettici i nostri debiti, come anche noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori”» (Matteo 6,9.12).

 

In questi versetti si tratta di una remissione e di una purificazione che in genere il discepolo di Cristo sperimenta ripetutamente. I due significati della remissione si possono comprendere bene dall’episodio in cui Gesù lava i piedi ai discepoli: «Pietro gli disse: “Tu non mi laverai mai i piedi”. Gesù gli rispose: “Se non ti lavo, non avrai nessuna parte con me”. Simon Pietro gli disse: “Signore, non solo i piedi, ma anche le mani e il capo”. Gesù gli disse: “Chi ha fatto il bagno non ha bisogno che di lavarsi i piedi, ed è tutto puro. Anche voi siete puri”» (Gv 13,8ss; cfr. 15,2s).

     È chiaro che la conversione si sperimenta una volta per sempre, mentre i momenti di santificazione radicati in quella conversione si sperimentano nel corso di tutta la vita. Il Catechismo Cattolico invece fonde la remissione giudiziale con quella filiale, pur riconoscendo una distinzione tra le due. Di conseguenza viene a mancare il concetto di una conversione decisiva, unico fondamento possibile per il cammino progressivo nella santificazione.

 

 

6.  L’ATTUAZIONE DELLA REMISSIONE O RITENZIONE: Il mandato rivolto ai discepoli richiama il linguaggio usato da Dio quando a suo tempo incaricò il profeta Geremia. È scritto: «Ecco, io ho messo le mie parole nella tua bocca. Ecco, oggi ti costituisco sopra le nazioni e sopra i regni, per sradicare e per demolire, per abbattere e per distruggere, per edificare e per piantare» (Gr 1,9b-10). Gesù si esprime in modo simile nei versetti che stiamo trattando, quando dice: «In verità vi dico che tutte le cose che voi avrete legate sulla terra saranno legate nel cielo; e tutte le cose che avrete sciolte sulla terra saranno sciolte nel cielo». E ancora quando dice: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi, e a chi non li rimetterete resteranno non rimessi». Sia Geremia che i discepoli avrebbero predicato, sperimentando la presenza del Signore e facendo cose inaudite. Geremia avrebbe distrutto ed edificato nazioni (il linguaggio, si capisce, non è da prendere alla lettera), ma lo avrebbe fatto solo attraverso il messaggio affidatogli. Quel messaggio, con la sua rivelazione di condizioni e conseguenze, avrebbe messo gli uomini davanti a una scelta, in rapporto alla quale Dio avrebbe distrutto o edificato; il fatto di attribuire a Geremia stesso l’azione di demolire e di edificare è lecito solo nel senso che, annunciando quell’azione, ne sarebbe stato lo strumento.

     Ai discepoli, similmente, fu affidato l’Evangelo della remissione dei peccati (1 Ts 2,4) e il messaggio poteva essere dichiarato con autorità, proprio perché Dio avrebbe certamente messo in atto ciò che aveva promesso o minacciato di fare. È come se Gesù avesse detto: «Voi legherete o scioglierete, voi rimetterete o riterrete, perché io immancabilmente lo farò. Appena vedrò come risponderanno al messaggio e prima che voi stessi ve ne rendiate conto, sarò io a legare o sciogliere». Difatti una traduzione letterale dal greco di Giovanni 20,23 darebbe questo senso: «Di chiunque rimettiate i peccati essi sono rimessi a loro; di chiunque li riteniate essi sono stati ritenuti». Anche in Matteo 16,19 e 18,18 troviamo nel greco il futuro perfetto, ed è bene notare che i verbi non sono certamente all’attivo: gli apostoli non avrebbero rimessi o ritenuti loro i peccati, ma i peccati sarebbero stati rimessi o ritenuti da Qualcun Altro.

     Il libro degli Atti degli Apostoli fornisce vari esempi dell’uso delle chiavi e dell’effetto della predicazione dell’Evangelo. Menzioniamo alcuni episodi significativi.

     Cinquanta giorni dopo la risurrezione, cioè nel giorno della Pentecoste, quelli che ascoltarono la predicazione di Pietro furono compunti nel cuore e chiesero: «Fratelli, che dobbiamo fare?». La risposta di Pietro fu: «“Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo per il perdono dei peccati» [...] Quelli dunque che ricevettero la sua parola lietamente furono battezzati» (At 2,37s.41). È ovvio che la compunzione nel cuore delle persone è determinata dall’ascolto del messaggio dell’Evangelo dichiarato con convinzione per mezzo dello Spirito Santo. C’è poi da notare che il battesimo è per la remissione dei peccati e viene amministrato immediatamente, quasi fosse il coronamento del credere (cfr. Atti 8,12.36ss; 9,18; 10,48; 16,15.33; 18,8).

     Nella città di Samaria, quando il mago Simone offrì del denaro agli apostoli perché gli concedessero l’autorità di conferire lo Spirito Santo a chi voleva, Pietro gli disse: «Vada il tuo denaro in perdizione con te, perché tu hai pensato di poter acquistare il dono di Dio con denaro. Tu non hai parte né sorte alcuna in questo, perché il tuo cuore non è diritto davanti a Dio. Ravvediti dunque da questa tua malvagità e prega Dio che, se è possibile, ti sia perdonato il pensiero del tuo cuore. Poiché io ti vedo essere nel fiele di amarezza e nei legami d’iniquità» (At 8,20-23). Qui si può dire che Pietro «ritenne» i peccati del mago — si vede che la sua predicazione non andò sempre a buon fine. È chiaro anche che il battesimo di per sé non rigenera il cuore, perché, come sappiamo dal racconto, Simone era stato battezzato, ma nel profondo era rimasto un mago.

     Nell’episodio dell’eunuco etiope, quest’ultimo, quando ebbe ascoltato l’Evangelo da Filippo, chiese di essere battezzato. Filippo gli rispose: «Se tu credi con tutto il cuore, lo puoi» (At 8,37) e lo battezzò, ma solo dopo aver ricevuto la risposta affermativa. L’evangelista, insomma, emette un verdetto di approvazione sulla professione di fede dell’eunuco, che crede «con tutto il cuore»; come conseguenza gli concede il segno della remissione dei peccati, cioè il battesimo, con il quale l’eunuco si riconosce peccatore impuro e, allo stesso tempo, confessa Cristo apertamente come il suo salvatore. Filippo rimette i peccati del nuovo convertito ma sempre in senso dichiarativo, non esecutivo, né tanto meno come mediatore, ma semplicemente come strumento.

     Nel libro degli Atti troviamo anche l’episodio riguardante Cornelio (At 10). Pietro annuncia l’Evangelo riassumendo la vita, la morte e la risurrezione di Gesù; poi al culmine della sua predicazione afferma: «A lui rendono testimonianza tutti i profeti, che chiunque crede in lui riceve il perdono dei peccati mediante il suo nome» (10,43). Cornelio e gli altri che si trovano con lui credono e per questo Dio interviene subito investendoli con lo Spirito Santo. Così diviene chiaro che queste persone hanno sperimentato la remissione/purificazione dei peccati e la rigenerazione. Pietro riconosce la validità della loro conversione e li battezza immediatamente. Viene anche indicato chiaramente il momento in cui quelle persone hanno ricevuto la remissione dei loro peccati: «Mentre Pietro stava ancora dicendo queste cose» (10,44), cioè mentre Pietro stava dicendo: «Chiunque crede in lui riceve la remissione dei peccati» (10,43). Insomma, hanno ricevuto la remissione in coincidenza con la predicazione e prima che Pietro pronunciasse una qualsiasi parola di approvazione: la remissione è stata perciò un’azione completamente divina. L’amministrazione del battesimo, sebbene costituisca l’importante tappa finale del percorso del credere, non ha aggiunto nulla alla loro nuova posizione davanti a Dio; il battezzare è sì un’azione che va al di là della predicazione, ma è soltanto il segno esteriore di una realtà interiore già sperimentata.

     Anche l’apostolo Paolo predicava lo stesso Evangelo con gli stessi risultati. In Antiochia di Pisidia concluse così: «Vi sia noto, fratelli, che per mezzo di lui vi è annunziata la remissione dei peccati, e che, mediante lui, chiunque crede è giustificato di tutte le cose, di cui non avete potuto essere giustificati mediante la legge di Mosè» (At 13,38s). A quelli che rispondono favorevolmente alla predicazione, Paolo e Barnaba rivolgono l’esortazione a perseverare nella grazia di Dio; mentre a quelli che rifiutano l’Evangelo dicono solennemente: «Era necessario che fosse annunziata a voi per primi la parola di Dio; ma poiché la respingete e non vi giudicate degni della vita eterna, ecco, noi ci rivolgiamo ai gentili» (13,46). Gli apostoli, nel cessare di predicare a loro l’Evangelo, «ritennero» i loro peccati (cfr. Gv 9,41).

     Terminato il primo viaggio missionario, Paolo e Barnaba raccontano alla loro chiesa mandante «quante grandi cose Dio aveva compiuto per mezzo loro e come egli aveva aperto ai gentili la porta della fede» (14,27). Significativamente parlano di cose che aveva fatto Dio. Avevano usato le chiavi, l’Evangelo, in stretta comunione con Cristo; di conseguenza Dio aveva compiuto grandi cose. Del resto Cristo, prospettando ciò che avrebbe fatto Lui, aveva già preannunciato quali cose avrebbero fatto loro («rimetterete i peccati [...] li riterrete»). Insomma, Cristo si era completamente identificato con gli apostoli e loro con Lui, ma senza confondere il ruolo di Chi perdona effettivamente (Dio) con quello di chi semplicemente annuncia il perdono (i discepoli del Signore).

 

 

7. POTERE DICHIARATIVO: Poiché solo Dio può perdonare i peccati (Mc 2,7), il potere delle chiavi nel rimettere o ritenere i peccati, ora come sempre, non è di carattere esecutivo ma solo dichiarativo. Nondimeno l’autorità di chi annuncia l’Evangelo non è vuota e ciò è vero per due motivi. Il primo è che il discepolo di Cristo agisce in sintonia con il Signore che lo manda. Quando dichiara a qualcuno che i suoi peccati sono rimessi, non fa nulla di autonomo o quanto meno di magico; infatti l’autorità di rimettere o di ritenere i peccati viene esercitata in stretta connessione con l’annuncio della parola. Il secondo motivo è che l’efficacia di quella parola è sempre condizionata dall’atteggiamento di chi l’ascolta, la cui fede si manifesta con un atteggiamento ricettivo; difatti quando chi ascolta l’Evangelo lo recepisce come reale parola di Dio, proprio allora avviene l’intervento divino (1 Ts 2,13). Succede così che il nuovo convertito sperimenta la remissione dei peccati e all’evangelizzatore non resta che prendere atto di ciò che Dio ha fatto. C’è però una seconda alternativa, dichiarata con la stessa autorevolezza: qualora il messaggio dell’Evangelo è veramente insegnato e predicato, chi lo rifiuta è come se rifiutasse il Figlio di Dio che ne è l’essenza e può perciò essere sicuro di non ricevere la remissione dei peccati (Gv 3,36).

     Per la questione del potere delle chiavi come mediazione nella remissione dei peccati, molto rilevante è l’affermazione dell’apostolo Paolo in 2 Corinzi 5,18-6,2. Eccone l’essenza: nel momento in cui Gesù fu messo a morte sulla croce, Dio fece di Lui l’oggetto del giudizio che spettava all’uomo colpevole. Poté fare ciò in vista dei meriti di Cristo il quale — a differenza dell’uomo peccatore — è stato perfettamente ubbidiente fino in fondo e fino alla fine della sua vita terrena. Allo stesso momento, in virtù del sacrificio propiziatorio di Gesù, «Dio riconciliava il mondo con sé in Cristo, non imputando agli uomini le loro trasgressioni» (v. 19). Per la «non imputazione delle loro trasgressioni» si intende che Dio, «nel tempo propizio» (6,1s), mette da parte la sua giusta ostilità nei confronti dell’uomo. Ora Dio affida la parola della riconciliazione ai suoi ambasciatori, vale a dire ai seguaci di suo Figlio. Questi sono incaricati, non a riconciliare o rimettere i peccati, ma semplicemente ad annunciare la disposizione di Dio a perdonare. La riconciliazione tra Dio e l’uomo e il perdono sono già disponibili, ma per realizzarli effettivamente bisogna che anche l’uomo, davanti all’invito, si riconcili con Dio per mezzo della fede e del ravvedimento (v. 20).

     Gli archivi di Stato di Richmond, Kentucky (USA), per le ultime decadi del 19° secolo, riportano un episodio che può ben illustrare come si debba intendere Giovanni 20,23. Samuel Holmes, recluso nel penitenziario di Frankfort per omicidio, ricevette un giorno la visita di Lucien Young, un suo vecchio compagno di scuola. Young, impietositosi di Holmes, si recò dal governatore Blackburn per chiedergli la grazia. Il governatore, tenuto conto del gesto coraggioso di Young nell’aver salvato alcune persone in un tragico incidente di qualche anno prima, si lasciò persuadere, firmò il documento di grazia per amore di Young e incaricò Young stesso di andare di persona dal detenuto per annunciargli il perdono. Young ritornò alla prigione per dare la buona notizia al recluso, ma prima di accennare al fatto che aveva ottenuto l’autorità di dichiararlo uomo libero, volle parlare con lui di diverse cose. Poi a un tratto gli chiese: «Sam, se tu fossi perdonato, liberato, cosa faresti?». Il detenuto cambiò espressione e rispose senza esitare: «Andrei a Lancaster e ucciderei sia il giudice sia il testimone che è stato contro di me». Young non proferì parola; si congedò da lui con grande tristezza e, uscito dalla prigione, stracciò il documento di grazia.

     I crimini del detenuto furono «ritenuti» perché era evidente che in Holmes persisteva un atteggiamento malvagio e per il fatto che Young volle agire in sintonia con il governatore. La vicenda avrebbe potuto avere un esito diverso, perché sia il governatore che Young volevano vedere Holmes perdonato ed entrambi speravano che la grazia offerta potesse suscitare in lui il ravvedimento e la riconoscenza. Holmes perse il suo perdono semplicemente perché, quando gli fu prospettata la grazia, non si trovò in lui il pentimento necessario per riceverla. Come autentico ambasciatore, Young poté soltanto prenderne atto e agire di conseguenza.

     Dio si è riconciliato con tutti i colpevoli nello stesso senso in cui il governatore si è riconciliato con il criminale Holmes nel racconto. Ha assunto questa disposizione di perdonare tenendo conto unicamente del merito di un Altro, cioè di suo Figlio. Come nella storia, l’offerta del perdono è condizionata: davanti all’annuncio della parola della riconciliazione, bisogna anche che l’uomo peccatore si riconcili con Dio mediante la fede e il pentimento. Infine, come nel racconto, il discepolo che detiene la parola della riconciliazione non è un mediatore che fa dipendere una persona da sé, ma un ambasciatore che annuncia il messaggio; l’ambasciatore può rassicurare chi l’accetta, o disapprovare chi non l’accetta, ma niente di più.

 

 

8.  CONCLUSIONE: A questo punto sembra opportuno ribadire alcuni fatti ed evidenziare l’importanza della confessione, correttamente intesa.

     ■ A differenza del Catechismo Cattolico, con le sue insistenze sul potere delle chiavi inteso come mediazione, non vediamo all’interno del Nuovo Testamento l’attuazione di un sacramento di confessione - penitenza - riconciliazione, secondo cui un apostolo o altro giudica la gravità del peccato di una persona, l’assolve e le assegna una penitenza. È questa la considerazione tratta dai «silenzi» cui si accennava all’inizio e che ora, dopo l’approfondimento della questione, acquista più forza.

     ■ Il Catechismo cita a sproposito Giovanni 20,23. Nell’Evangelo il versetto si trova in un contesto di prospettata evangelizzazione di persone senza alcun rapporto con le comunità dei cristiani: le persone a cui Gesù si riferisce non sono battezzate. Di conseguenza il concetto di remissione dei peccati nel versetto viene mal applicata, perché nel suo contesto ha un significato giudiziale e non filiale; è parallelo al termine «salvato» presente nel mandato di Marco (16,16) e all’espressione «perdono dei peccati» nel mandato di Luca (24,47). Per il concetto di remissione in senso filiale bisogna andare a brani come Matteo 6,12 («Padre nostro [...] perdonaci i nostri debiti»).

     ■ In Giovanni 20,23 Gesù non sta pensando ai credenti che peccano e che hanno bisogno di essere ristabiliti (come afferma il Catechismo Cattolico), ma a persone non convertite che, pur ascoltando la predicazione, corrono il rischio di avere i loro peccati non rimessi. Parlare di conversione continua in rapporto a questo versetto è un ostacolo a una conversione vera e radicale. Il Nuovo Testamento insegna chiaramente che ci si converte a Dio una volta per sempre, come ci si battezza una volta per sempre. Il fondamento non si rifà ma, se è quello vero, ci si costruisce sopra.

     ■ Il Catechismo tradisce un mancato interesse per gli esempi di conversione nel Nuovo Testamento (Atti degli Apostoli in particolare). In questi racconti, sia la remissione che la ritenzione dei peccati si trovano in stretta connessione con la predicazione: proclamando l’Evangelo come ambasciatori di Cristo, gli apostoli e gli altri discepoli di Cristo «rimettono» o «ritengono» i peccati. L’annuncio della remissione è convalidato da Dio con una sentenza di grazia o di condanna, secondo la risposta di ubbidienza o di rifiuto da parte degli uditori. Quelli che accolgono l’invito si lasciano battezzare, mentre quelli che lo respingono e non riconoscono la giustizia di Dio nei loro confronti, certamente non si fanno battezzare (Lc 7,29s). Il contesto dell’uso del potere delle chiavi, insomma, non è un confessionale ma un battistero, cioè un luogo dove il penitente si fa battezzare (lago, fiume, vasca, o altro).

     ■ Nel contesto della remissione unica, cioè quella giudiziale all’inizio della professione cristiana, troviamo il battesimo, tramite il quale il nuovo convertito riconosce che senza Cristo è perduto e lo confessa come Signore e salvatore della sua vita. In quell’inizio confessa i suoi peccati, a volte pubblicamente (Mt 3,6; Atti 19,18). Gli sviluppi del messaggio dell’Evangelo, che si vedono nelle epistole del Nuovo Testamento, confermano questa impostazione (cfr. p.es. Rm 6,3s; Gal 2,19ss). Il Catechismo, invece, pur riconoscendo la distinzione tra la remissione unica e quella ricevuta successivamente, non dà alcuna importanza al fatto che per la remissione, in entrambi i casi, è indispensabile la confessione. Di conseguenza, siccome per quasi tutti i Cattolici l’inizio della vita cristiana coincide con il battesimo da neonato, viene ostacolato l’adempimento della condizione per ottenere la remissione dei peccati: difatti il neonato che viene battezzato non confessa nulla.

     ■ Nel contesto della remissione dei peccati dopo la conversione e dopo il battesimo, remissione della quale i credenti hanno purtroppo sempre bisogno (Gv 13,8ss), l’apostolo Giovanni rassicura i fedeli con le seguenti parole: «Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. [...] Figlioletti miei, vi scrivo queste cose affinché non viviate nel peccato e se pure qualcuno ha peccato, abbiamo un avvocato presso il Padre: Gesù Cristo, il giusto. Egli è la propiziazione per i nostri peccati» (1 Gv 1,9; 2,1-2a). Sono parole del messaggio dell’Evangelo come queste, udite nella predicazione, nell’insegnamento o semplicemente ricordate, che fanno coincidere (come per la remissione giudiziale) il momento della confessione con la remissione filiale (cfr. il caso di 1 Cor 11,23-31 in occasione della celebrazione della Cena del Signore).

 

Nella Bibbia è chiaro che la confessione va fatta in primo luogo a Dio, poiché ogni peccato è prima di tutto un’offesa a Lui ed è solo Lui che può perdonare e purificare. Ma la confessione va evidentemente fatta anche a quelle persone che sono state offese o danneggiate (Mt 5,23s). Nell’ambito della comunità dei credenti Giacomo così esorta: «Confessate i vostri peccati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri, affinché siate guariti» (Gcm 5,16a). Pertanto, il fatto che un credente confidi a un altro, spiritualmente maturo, le sue lotte e i suoi fallimenti, allo scopo di essere aiutato a vincere il peccato e ritrovare la pace nel perdono di Dio, è certamente in accordo con lo spirito dell’Evangelo.

 

{Redatto e adattato da Fernando De Angelis e Nicola Martella;

2a edizione - © Punto°A°Croce 2007}

 

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Per contattare l'autore: «Speranza Evangelica» - Via C. Battisti, 26 – 61029 Urbino (PU) - Tel. 0722 4193

 

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Brevi considerazioni su «Il potere delle chiavi» di Alfredo Terino

 

Ho letto con piacere lo studio di Alfredo Terino relativo a «Il potere delle chiavi» preteso dal Cattolicesimo Romano. Visto che, con grave danno per chi li ascolta, non cessano di pretenderlo, bene ha fatto l'Autore a confutarne ancora il fondamento biblico. La nota abilità e precisione esegetica di Terino saranno di grande aiuto ai lettori che, al di là del valore della controversia, potranno giovarsi anche dell'attenzione data dall'Autore al contenuto pastorale ed evangelistico dei testi esaminati. {Elio Milazzo; 02-10-2007}

 

Sciogliere e legare {Nicola Martella} (D)

Sciogliere e legare è il sacramento della confessione? {Nicola Martella} (D)

Sciogliere e legare? Parliamone {Nicola Martella} (T)

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A2-Potere_delle_chiavi_UnV.htm

07-04-2007; Aggiornamento: 15-01-2012

 

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