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1.
Entriamo in tema
(Nicola Martella)
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2.
La tesi favorevole
(Argentino Quintavalle)
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3.
Osservazioni e
obiezioni (Nicola Martella)
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4.
Approfondimento della tesi (Argentino Quintavalle)
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5.
Nuove osservazioni e obiezioni (Nicola Martella)
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1.
ENTRIAMO IN TEMA
(Nicola Martella): Sull’obbligo dei cristiani gentili verso i
cristiani giudaici le posizioni sono variegate. Per prima cosa bisogna intendere
che cosa si intenda per «obbligo»; allora si scopre che si tratta del ricavato
delle collette di chiesa. Alcuni gruppi cristiani sono convinti che quanto si
raccoglie con la colletta, sia da destinare interamente — al netto delle spese
correnti per gestire al minimo la chiesa locale — per i Giudei cristiani odierni
e, in senso lato, anche al giudaismo che vive in Palestina. I gruppi del
cosiddetto «sionismo cristianizzato» arrivano a postulare che questo sia l’unico
e solo uso corretto delle offerte. Per questo essi portano ingenti somme in
Israele perché vengano costruiti lì dallo Stato o da organizzazioni del
giudaismo storico ospedali, asili e altre strutture sociali; altri gruppi
lavorano esclusivamente con i cristiani giudaici, spesso non facendo differenze
di denominazione. Come abbiamo visto, le posizioni sono variegate. Si
cerca comunque di usare i dati del NT per costruire una convinzione dottrinale
di tale presunto obbligo dei cristiani gentili verso quelli giudaici. Qui di
seguito presentiamo dapprima la posizione moderata di Argentino Quintavalle, a
cui seguiranno alcune osservazioni e obiezioni di Nicola Martella.
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2.
LA TESI FAVOREVOLE
(Argentino Quintavalle): L’autore aveva intitolato il suo
interessante contributo «L’obbligo gentile», intendendo l’obbligo dei cristiani
delle nazioni verso quelli del giudaismo. Ecco ora la sua tesi qui di seguito. Il fatto che i credenti gentili sono diventati
partecipi dei beni spirituali dei Giudei, ha messo un obbligo su di loro,
secondo Rm 15,25ss: «Ma per ora vado a Gerusalemme a portarvi una sovvenzione
per i santi; perché la Macedonia e l’Acaia si sono compiaciute di raccogliere
una contribuzione a pro dei poveri fra i santi che sono in Gerusalemme. Si sono
compiaciute, dico; ed è anche un debito
ch’esse hanno verso di loro; perché se i Gentili sono stati fatti partecipi dei
loro beni spirituali, sono anche in
obbligo
di sovvenir loro con i beni materiali».
Paolo, mentre stava arrivando alla fine della sua
lettera ai Romani, ha spiegò in dettaglio i suoi progetti immediati. Nel v. 25
spiegò perché non poteva andare subito da loro. Mentre desiderava da tempo
andare a Roma (Rm 1,9-12), il suo desiderio era però soggetto al suo dovere, che
era quello di mettere insieme un’offerta e portarla ai cristiani giudei di
Gerusalemme. Di quest’offerta speciale se ne parla anche in 1 Cor 16,1-4 e in 2
Cor 8-9. In Rm 15,26 Paolo parlò dei sovvenzionatori e dei
beneficiari dell’offerta. I Gentili della Macedonia e dell’Acaia diedero il
denaro, il quale era specificatamente per i credenti giudei poveri della città
di Gerusalemme. Nel v. 27, Paolo insegnò che i Gentili erano obbligati
verso i Giudei. Egli affermò chiaramente che i Gentili erano debitori dei Giudei
e ne diede la ragione: i Gentili erano stati fatti partecipi dei loro
beni spirituali. In precedenza, in Rm 11, Paolo insegnò che i Gentili erano
diventati partecipi dei beni spirituali, ma questi erano beni spirituali dei
Giudei e conseguiti attraverso la mediazione dei patti fatti con i Giudei.
Il fatto che i Gentili sono stati fatti partecipi dei beni spirituali dei
Giudei, li ha messi in debito nei loro confronti. La maniera che essi hanno per
pagare i loro debiti, in accordo con l’insegnamento di Paolo, è quello di
portare aiuto ai credenti giudei nelle cose materiali. Io ed altri siamo convinti che questo debito sussista
ancora e debba essere assolto nella pratica.
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3.
OSSERVAZIONI E OBIEZIONI
(Nicola Martella): Per l’esegesi si fa sempre male a prendere un caso
specifico e circostanziato per farne un caso esemplare valido sempre e comunque
e per generalizzarlo in senso dottrinale.
Ho trattato questo tema già una volta in altro contesto:
►
Hanno i cristiani un ministero per la nazione d’Israele? {Nicola Martella}. Qui di seguito
aggiungeremo altri elementi e approfondiremo maggiormente la questione.
3.1. L’ANALISI DEI FATTI: Se analizziamo i fatti come si
presentano, notiamo i seguenti elementi.
■ L’apostolo Paolo non partì da un’elaborazione
teologica che statuisse un principio perpetuamente valido, ma da un bisogno
concreto all’interno della contingenza d’allora. ■ Si trattava di una fase storica immediatamente vicina
all’inizio della chiesa, quando effettivamente l’Evangelo arrivò ai Gentili
mediante missionari giudei. Infatti Paolo, scrivendo ai Romani, ricordò delle
chiese della Macedonia e dell’Acaia: «Si sono compiaciute di raccogliere una
koinonìa a pro dei poveri fra i santi che sono in Gerusalemme. 27Si
sono compiaciute, dico; ed è anche un debito ch’esse hanno verso di loro; perché
se i Gentili sono stati fatti partecipi dei loro beni spirituali, sono anche in
obbligo di sovvenire loro con i beni materiali» (Rm 15,26s). In quella situazione missionaria del primo secolo, le
chiese della Macedonia e dell’Acaia avevano effettivamente un «debito»
verso i «santi che sono in Gerusalemme», essendo che l’Evangelo era
arrivato loro allora direttamente mediante i missionari giudeo-cristiani. Questa
era a quel tempo la condizione normale, ma oggigiorno è un fatto abbastanza
eccezionale che missionari giudeo-cristiani partano da Israele per fondare
chiese nel resto del mondo. ■ Tutto partì dall’annuncio di Agabo, un profeta di
Gerusalemme in visita in Antiochia. Infatti, Luca sintetizzò i fatti come segue:
«E un di loro, chiamato per nome Agabo, levatosi, predisse per lo Spirito che
ci sarebbe stata una gran carestia su tutta l’ecumene; ed essa ci fu sotto
Claudio. 29E i discepoli determinarono di mandare, ciascuno secondo
le sue facoltà, una sovvenzione ai fratelli che abitavano in Giudea, 30il
che difatti fecero, mandandola agli anziani, per mano di Barnaba e di Saulo»
(At 11,27-30). L’imperatore Claudio regnò tra il 41 e il 54 d.C. Il
termine oikouménē
significava «regno, impero [romano]» (cfr. Lc 2,1; 4,5 pl.; At 19,27; 24,5); per
estensione s’intendeva «mondo [abitato]» (At 17,6.31; Eb 1,6; 2,5; Ap 12,9;
16,14). C’è da presumere che tale carestia abbia colpito particolarmente la
Palestina, visto che nel Medio Oriente piove poco e la maggior parte
dell’umidità arriva alle piante dalla rugiada; nel resto dell’impero c’erano
corsi d’acqua e piogge ricorrenti. Questo spiegherebbe la decisione dei
cristiani fuori della Palestina di mandare la loro diakonía «aiuto,
servigio, sostegno, sovvenzione» ai fratelli della Giudea. ■ Si noti che fu un bisogno particolare e straordinario
dei fratelli della Giudea, preannunziato da Agabo, a spingere i «discepoli»,
ossia i credenti delle chiese in terra di missione, a fare una raccolta di fondi
da mandare loro per alleviare le conseguenze della carestia che lì dev’essere
stata particolarmente pesante. Qui non fu una motivazione teologica a spingerli,
ma un atto concreto d’amore. ■ Non si trattava di una prassi normale e costante,
come potrebbe essere la colletta regolare nelle chiese odierne (è dubbio che ciò
sia esistito nelle chiese del primo secolo), ma di un fatto straordinario,
talché «i discepoli determinarono di mandare una diakonìa, ciascuno secondo
le sue facoltà». ■ Sebbene Luca avesse qui sintetizzato i fatti, non fu
un’impresa facile. Al riguardo furono incaricati Paolo, Barnaba e la loro
squadra missionaria. Essi scrissero lettere alle chiese gentili, mandarono
emissari per metterli al corrente, poi di nuovo lettere ed emissari per
raccogliere tali fondi speciali (2 Cor 8,6). Paolo stesso dovette andare nelle
chiese per raccogliere i fondi. Quest’apostolo dovette anche lavorare
psicologicamente, lodando un certo gruppo di chiese e incitandone altre con
l’esempio altrui. «Io ne rendo testimonianza, secondo il poter loro, anzi al
di là del poter loro, [le chiese di Macedonia] hanno dato volenterosi, 4chiedendoci
con molte istanze la grazia di contribuire a questa diakonìa destinata ai santi»
(2 Cor 8,1-5). Mostrò anche il risvolto pratico della questione: la comunione
con i fratelli della Giudea, l’esercizio pratico dell’Evangelo da parte dei
donatori e il fatto che tale diakonìa avrebbe prodotto lode a Dio,
ringraziamenti e intercessione per i donatori (2 Cor 9,12ss). Infine i fondi speciali arrivarono centralmente (forse
ad Antiochia), furono amministrati e poi mandati proprio «per mano di Barnaba
e di Saulo gli anziani» alle chiese della Giudea. Fu un’impresa enorme per
quei tempi e quindi anche straordinaria e unica, che costò immani forze, tempo e
denaro. ■ Questa straordinarietà e unicità era dovuto anche al
fatto che Paolo scrisse: «Or quanto alla raccolta per i santi, fate anche voi
così come ho ordinato alle chiese di Galazia. 2Ogni primo [giorno] di
settimana ciascuno di voi metta da parte presso di sé e accumuli secondo che
abbia prosperità, affinché non avvengano [più] raccolte, quando verrò» (1
Cor 16,1s). Si noti che non si tratta di una colletta di chiesa, ma privata. [È
dubbio che nel primo secolo ci siano mai state collette regolari nelle chiese
locali, ma ogni credente esercitava la beneficenza direttamente verso i poveri
(Eb 13,16) e ospitando e rifornendo i predicatori itineranti (3 Gv 1,5-8; Rm
15,24).
►
Perché nelle chiese durante il
culto si passa una borsa per le offerte?] L’indicazione
del primo giorno della settimana (da sabato sera in poi) era dato dal fatto che
solo alla fine era possibile stabilire la «prosperità» ricevuta in quella
settimana. ■ Paolo prevedeva di non essere più a disposizione per
una replica di tale evento straordinario, avendo in cuore di recarsi in Spagna:
«…avendo già da molti anni gran desiderio di recarmi da voi, 24quando
andrò in Spagna, spero, passando, di vedervi e d’esser da voi aiutato nel mio
viaggio verso quella meta… 25Ma per ora vado a Gerusalemme a portarvi
una diakonìa per i santi… una diakonìa a pro dei poveri fra i santi che sono in
Gerusalemme» (Rm 15,24ss). E ancora: «Quando dunque avrò compiuto e
consegnato questo frutto, andrò in Spagna passando da voi… e [pregate che] la
diakonìa che porto a Gerusalemme sia accettevole ai santi» (vv. 28.31).
3.2. ALCUNE CONCLUSIONI: Non si può trarre dai brani, che
abbiamo analizzato, un principio generale per l’oggi, secondo cui le chiese dei
Gentili siano in obbligo di sostenere economicamente, secondo gli uni, i
credenti giudeo-cristiani d’Israele e, secondo gli altri, in genere tutti i
Giudei d’Israele, a causa d’un debito storico e teologico. Che noi sappiamo, non ci sono numerose chiese gentili
in Occidente che siano state fondate, negli ultimi decenni, direttamente da
missionari giudeo-cristiani, provenienti direttamente da Gerusalemme e dintorni,
all’interno d’un progetto missionario di evangelizzazione e cristianizzazione
dell’Occidente. Che io sappia, non esiste attualmente neppure una chiesa
di cristiani gentili, fondata da un missionario giudeo-cristiano, mandato dalle
chiese di Gerusalemme. E ciò è dovuto anche al fatto che i cristiani giudei
fondano tutt’al più chiese giudeo-cristiane, in cui possono praticare le loro
tradizioni culturali. Ho letto ultimamente dell’esistenza del primo «rabbino»
delle chiese giudeo-cristiane in Italia! Probabilmente chiamerà la sua assemblea
«sinagoga», invece di «chiesa»!
Il principio biblicamente valido che si può trarre è
quello della gratitudine delle chiese formate in terra di missione verso le
chiese che hanno mandato loro dei missionari, nel caso in cui la situazione
economica delle chiese mandanti richiedesse un intervento speciale. Spesso le
chiese in terra di missione pretendono di essere quelle che ricevono; mostrano
invece di essere arrivate a uno stadio di maturità, quando diventano, a loro
volta, donatrici. Questo è, come abbiamo ricordato, un modo pratico e
tangibile per esprimere la comunione con i fratelli, che hanno mandato i
missionari, ed è un esercizio pratico e maturo dell’Evangelo da parte di coloro
che hanno ricevuto la Parola; tale diakonìa produce inoltre in chi riceve
lode e ringraziamenti a Dio e intercessione per i donatori (2 Cor 9,12ss). Una tale situazione si è avverata, ad esempio, in
qualche modo, dopo la seconda guerra mondiale, quando le chiese d’oltreoceano
(Usa, Canada, Australia, ecc.), specialmente quelle formate da immigrati, si
fecero promotori di una raccolta straordinaria a favore dei credenti europei e
mandarono tali aiuti in forma di pacchetti (Care) contenenti cibi e indumenti.
Ciò fu un grande gesto di comunione e un grande aiuto per i credenti stremati
dalla guerra.
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4.
APPROFONDIMENTO DELLA TESI
(Argentino Quintavalle):
Considerando
l’ampia replica di Nicola, mi sento in dovere di dire ancora qualcosa su
quest’evento giudicato sporadico e contingente. Anni prima i conduttori della
chiesa di Gerusalemme avevano raccomandato a Paolo di «ricordarsi dei poveri»
(Gal 2,10). Già questo ci fa capire che l’evento che viene considerato come
sporadico e contingente è durato un lungo periodo di tempo. Paolo ha scritto
riguardo questa colletta, oltre che in Romani, anche in 1 Cor 16,1-4; 2 Cor
capp. 8-9. Egli ha avuto successo nel fare questa tzedakah (carità)
Gentile verso i Giudei poveri e l’ha fatta essere parte del suo Evangelo. Questo
progetto, infatti, era iniziato con i credenti della Macedonia e dell’Acaia.
Dopo molti anni l’offerta è stata consegnata (At 24,17).
La tzedakah dovrebbe essere fatta con gioia («si
sono compiaciute») — Dio ama un donatore allegro (2 Cor 9,7) — e questo
riflette la comunione (oggi praticata da pochi) tra i cristiani giudei e i
cristiani gentili che Paolo ha sempre cercato d’inculcare. In Rm 15,26 la parola
tradotta con «contribuzione» è
koinonìa, letteralmente, «comunione, partecipazione»; la comunione
sincera implica la volontà di dare e condividere.
Ma c’è qualcosa d’ancora più importante: il dovere.
Siccome i credenti Gentili sono stati fatti partecipi dei beni spirituali dei
Giudei elencati in Rom 9,4s, essi hanno l’obbligo d’aiutare i Giudei nelle cose
materiali, semplicemente per gratitudine. Molti credenti americani si sono
spinti a dire che l’aiuto materiale non è limitato solo ai giudei credenti; e
così contribuiscono generosamente allo Stato d’Israele, a varie cause e opere di
carità giudaiche senza far passare le donazioni per le mani dei credenti Giudei.
Senza arrivare a tanto, ma anche senza giudicare, la mia opinione è che siccome
in Rm 15,25.31 la parola usata è haghiois (santi), ed è sempre usata da
Paolo per indicare i credenti, i Giudei destinatari della colletta erano
credenti. Non sono affatto d’accordo con la teologia espressa da
Nicola nelle sue conclusioni, ma che non voglio discutere in questa sede, perché
questo è un argomento che non ha bisogno di parole ma di fatti concreti.
Personalmente non mi lascio convincere da forti e categoriche affermazioni come:
«Non si può
trarre dai brani che abbiamo analizzato un principio generale per l’oggi».
Si può senz’altro, invece. Non manca né la motivazione teologica (il debito
spirituale è eterno), né quella pratica (i poveri ci sono). Non è possibile
essere cristiani e non amare i propri fratelli giudei che stanno in difficoltà.
Ma la Bibbia c’insegna che l’amore non è quello che diciamo, ma quello che
facciamo (1 Gv 3,18). Una canzone non è una canzone fino a quando non la
cantiamo, l’amore non è amore fino a quando non lo condividiamo.
A costo d’essere considerato uno Schnorrer (un
«accattone» in lingua Yiddish), rivolgo una preghiera a tutti i credenti
d’ubbidire a Rm 15,27 e aiutare nella pratica i migliaia di fratelli giudei che
oggi si trovano in condizioni di povertà, vittime della guerra, che hanno perso
le loro case e il loro lavoro.
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5.
NUOVE
OSSERVAZIONI E OBIEZIONI
(Nicola Martella):
Di per sé il mio
caro amico Argentino non fa che ripetere i suoi argomenti, senza aggiungere
nulla di veramente nuovo alla sua tesi. Quindi la mia risposta vale ampiamente
anche per ciò che egli ribadisce a nuovo. Faccio notare comunque alcune cose.
■ Tutti i brani citati si riferiscono allo
stesso episodio. Essa fu quindi un’unica diakonìa (o koinonìa) a
pro dei Giudei cristiani di Gerusalemme, durante il suo intero ministero. ■ Il termine tzedakah non esiste in greco
né nel NT (come potrebbe, visto che è ebraico!), e di per sé
ṣedāqāh nell'ebraico biblico non significa «carità», ma «ciò che è
giusto, giustizia, diritto; il giusto comportamento, onestà». Il termine prese
questa nuance solo negli scritti etero-biblici specialmente in
corrispondenza al termine greco eleēmosynē
«misericordia, elemosina» (cfr. Tob 12,9; Sir 3,30; 7,10). Bisogna stare attenti
a non proiettare nel testo del NT cose che non ci sono per poi accreditarle con
la ripetizione, l’ovvietà e il consenso (cfr. la proiezione del cosiddetto
Tetragramma nel NT!). ■ Uno dei metodi per accreditare un’opinione è spesso
la
generalizzazione di ciò che nel testo è circoscritto. In Rm 15,25ss (non in
Rm 9,4s, come Argentino afferma erroneamente), quando Paolo parlò dei Gentili e
del loro obbligo (v. 27b), intendeva chiaramente quelli della Macedonia e
dell’Acaia (vv. 26-27a). Si noti che in tutta l’epistola ai Romani, Paolo non
fece nulla per convincere anche i relativamente ricchi credenti romani a
partecipare alla diakonìa! Quindi la generalizzazione viene usata per
mostrare di aver ragione, ma essa è una falsa via per appurare la verità delle
cose. ■ È triste notare che in certi ambienti cristiani non
viene fatta nessuna
distinzione fra Giudei cristiani e Stato d’Israele (o giudaismo nel suo
complesso), pensando per gli Ebrei a una sorta di «dispensa» rispetto a Gv 3,36
(nonostante che Giovanni Battista lo rivolgesse proprio a loro!), a una specie
di «salvezza di diritto», senza accettare Gesù quale Messia-Re. La confusione
teologica è tanta al riguardo. ■ Non esiste un «debito eterno» se non verso il
Signore Gesù. I credenti della Macedonia e dell’Acaia dovevano avere una
gratitudine pratica verso coloro, da cui era arrivato loro direttamente
l’Evangelo. ■ Il principio che si può trarre è questo: Ogni
chiesa locale che si è formata mediante missionari dev’esprimere la sua
gratitudine verso le chiese che hanno mandato tale missionario fondatore e, in
caso di bisogno delle chiese mandanti, lo devono fare anche praticamente. ■ L’altro principio che si può trarre e che
ricalca il primo, è questo: Le chiese riceventi riguardo all’Evangelo devono
diventare donatrici riguardo ai loro beni, specialmente se nelle chiese mandanti
si creeranno delle situazioni oggettive di necessità e povertà. Il principio
dell’amore pratico deve estendersi verso tutti i poveri credenti, nessuno
escluso, siano essi giudei o gentili. ■ In Rm 15,27 non c’è un comando a cui bisogna
ubbidire (non creiamo precetti arbitrari!), ma soltanto delle riflessioni di
Paolo riguardo a ciò che hanno fatto i credenti della Macedonia e dell’Acaia.
Altrimenti avrebbe dato tale comando anche ad altre chiese (p.es. Tessalonica,
Colosse, Efeso, che in origine era una lettera circolare destinata a tante
chiese) o avrebbe dato in merito istruzioni specifiche ai suoi collaboratori
(Timoteo, Tito). Ma le cose non stanno così. ■ Sì, nel mondo ci sono migliaia e migliaia di fratelli
che «oggi si trovano in condizioni di povertà, vittime della guerra, che
hanno perso le loro case e il loro lavoro» e che stanno molto peggio di tanti
Giudei cristiani in Israele. Dico provocatoriamente che alcuni di loro si
trovano a solo pochi chilometri da Gerusalemme e sono cristiani palestinesi.
L’ingiunzione a «ricordarsi dei poveri» (Gal 2,10) vale per i cristiani nei
confronti di tutti i loro fratelli sparsi nel mondo. I cristiani del primo
secolo agirono positivamente verso i poveri intorno a loro, a prescindere dalla
loro razza e appartenenza culturale (cfr. At 9,36; Gal 6,10; 1 Tm 6,18; cfr.
anche Rm 13,3).
► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/A2-Obbligo_gentile_Sh.htm
10-09-2007; Aggiornamento: 19-09-2007
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