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 Ecco le parti principali:
■ Entriamo in tema (il problema)
■ Uniti nella verità
■ Le diversità quale risorsa
■ Le diversità e le divisioni
■ Aspetti connessi.
 
Il libro è adatto primariamente per conduttori di chiesa, per diaconi e per collaboratori attivi; si presta pure per il confronto fra leader e per la formazione dei collaboratori. È un libro utile per le «menti pensanti» che vogliano rinnovare la propria chiesa, mettendo a fuoco le cose essenziali dichiarate dal NT.

 

Vedi al riguardo la recensione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L’ARROGANZA DELLA CHIESA DI ROMA

 

 di Nicola Martella

 

 

1.  ENTRIAMO IN TEMA: «Risposte a quesiti riguardanti alcuni aspetti circa la dottrina sulla Chiesa» è il titolo della quinta parte di un documento di sedici pagine, firmato dal cardinale americano William Levada e approvato il 29 giugno 2007 dall’attuale papa Joseph Ratzinger. Tale documento ha come genere letterario le «risposte a questioni» (responsa ad questiones) e contiene perciò cinque domande e cinque risposte. È immancabile che il contenuto di tale risposta solleverà infuocate discussioni fra teologi e cocenti proteste da parte delle altre Chiese cristiane.

 

Il lupo cambia il pelo ma non il vizio

     Ciò che viene affermato in tale documento — se qualcuno si fosse mai illuso, specialmente fra gli ecumenismi — non è nulla di nuovo. Da decenni si assiste all’uso della «carota» e del «bastone» da parte dei vertici vaticani: prima vengono fatte concessioni diciamo universalistiche e poi segue, come al solito, la dichiarazione esclusivistica del cattolicesimo romano come unica chiesa legittima. Lo scopo di questa tattica è quella di avvicinare gli altri cristiani alla chiesa romana, per poi affermare di essere l’unica vera chiesa.

     Si veda al riguardo la dichiarazione «Dominus Iesus», pubblicata durante il Giubileo del 2000, firmata dall’allora cardinale Joseph Ratzinger, prefetto della Congregazione della Dottrina della Fede, e approvata dall’allora papa Karol Wojtyla. Anche allora gli appartenenti alle confessioni cristiane non cattoliche furono messe in grande sofferenza e i propugnatori dell’ecumenismo lo giudicarono un documento fondamentalista che metteva il bastone fra le ruote a ogni dialogo ecumenico, anzi ne tagliava le gambe.

 

Le tesi della chiesa di Roma

     Da tale documento del 2007 risultano le seguenti tesi.

     ■ «Cristo ha costituito sulla terra un’unica Chiesa e che essa sussiste nella Chiesa cattolica». C’è quindi una totale identificazione fra Chiesa di Cristo e Chiesa Cattolica. Essa sarebbe l’unica Chiesa voluta da Cristo.

     ■ Il capo visibile della Chiesa universale sarebbe il Vescovo di Roma.

 

Si ammette tutt’al più l’esistenza di «semi di verità» al di fuori dell’unica chiesa, ossia quella romana.

     ■ Le Chiese ortodosse possono essere considerate Chiese. Esse sono considerate Chiese orientali separate e meriterebbero il titolo di «Chiese particolari e locali».

     ■ Le Chiese della Riforma sarebbero semplicemente comunità ecclesiali. Esse sono considerate comunità cristiane sviluppatesi dalla Riforma del 16° secolo.

 

Tale differenza si basa sui presunti veri sacramenti e sulla successione apostolica, quindi sull’eucaristia e sul sacerdozio. Le Chiese della Riforma non avrebbero lo statuto sacramentale di Chiese, mancando dei seguenti elementi costitutivi essenziali: sacerdozio ministeriale, eucaristia e successione apostolica. Avrebbero solo un carattere ecclesiale solo in quanto comunità e confessioni religiose cristiane.

 

 

2.  OSSERVAZIONI E OBIEZIONI

 

Osservazioni e obiezioni generali

     Vecchie tesi sono periodicamente riscaldate per asserire nella chiesa il principio del sacramentalismo, del clericalismo e della successione sacramentale.

     ■ Sacramentalismo: Esso è stato mutuato dalle «religioni dei misteri» (gr. mysterion = lat. sacramentum), ossia dai riti segreti di alcune religioni pagane che intendevano così creare una unione magico-misterica (= mistico-sacramentale) con la divinità di riferimento. Con tale misteriosofia vennero interpretati a nuovo elementi ricorrenti nell’ebraismo e ripresi da Gesù e dalla chiesa apostolica (p.es. la «cena pasquale» o «cena del Signore»; 1 Cor 5,7s; 11,20).

     ■ Clericalismo: Il sacramentalismo, ponendo al centro la gestione di un «mistero», ha creato per analogia col paganesimo la necessità di un clero che lo gestisse. Così anche in una certa parte del cristianesimo nacque il clericalismo come mediazione dei «misteri religiosi» fra la Deità e il popolo (laici). Ciò fu rivestito poi con elementi presi in prestito al culto dell’AT.

     ■ Successione sacramentale: Come nelle «religioni dei misteri» e nei riti segreti si pose la questione del carisma particolare e della sua trasmissione. I chierici furono unti e distinti dai cosiddetti laici, essi divennero i detentori dei «misteri religiosi» e come custodi di tali «sacramenti» cristianizzati si arrogarono il diritto di trasmetterlo ai pochi iniziati. In tal modo nacque la «successione sacramentale», che poi fu abilmente interpretata come «successione apostolica». Su tale principio si reggevano allora vari culti segreti del paganesimo; e oggigiorno il «mistero» religioso, il «carisma» particolare (clero) e la «successione» sacramentale fra «maestro del mistero» e iniziato sono le basi, su cui si reggono organizzazioni segrete come la massoneria.

     ■ Conseguenze: La nascita post-apostolica di questi tre principi hanno costituito di fatto la trasformazione della chiesa apostolica in una chiesa gerarchica. La chiesa apostolica si basava esclusivamente sulla persona e l’opera di Cristo, sulla Parola di Dio quale unica fonte di verità e di rivelazione, sulla comunione e sul pari consentimento fra i credenti, sull’ubbidienza al grande mandato dei singoli cristiani e sull’importanza delle chiese locali, parimenti autonome e in comunione. Tutto ciò cambiò lentamente nei secoli, assimilando contenuti esterni alla Bibbia e al cristianesimo. Una «chiesa orizzontale» che riconosceva solo Gesù Cristo come capo, fu trasformata lentamente in varie «chiese piramidali» con a capo patriarchi («chiese patriarcali») e, dopo il tramonto di importanti patriarcati (Gerusalemme, Alessandria, Costantinopoli, ecc.) specialmente per mano dell’islam, il vescovo di Roma si arrogò dapprima importanti privilegi e poi pretese la supremazia della chiesa di Roma sulle altre. La trasformazione in «chiesa piramidale» con a capo il vescovo di Roma fu introdotta lentamente, servendosi appunto del sacramentalismo, del clericalismo e della successione sacramentale. Per sostenerla, i vescovi di Roma non si tirarono indietro dal falsificare fonti e documenti (cfr. la Donazione di Costantino) e inventarono la presunta «successione apostolica».

     Il trasferimento dell’imperatore a Costantinopoli, dopo che il cristianesimo divenne chiesa di stato, rese il vescovo di Roma anche rilevante politicamente. Poi seguirono la storia medioevale, la rivalità fra imperatori e papi quanto al potere secolare, la presunta superiorità dei papi sui governanti, la fondazione di uno stato della chiesa (basato su carte storicamente false), l’istituzione dell’inquisizione e l’eliminazione fisica dei dissidenti, la vendita di indulgenze, la presunta infallibilità del vescovo di Roma e così via. La totale identificazione fra «chiesa di Cristo» e «chiesa romana» rappresenta quindi solo uno dei tasselli di un «clericalismo sacramentale» che ha trasformato la «chiesa orizzontale» con a capo solo Cristo in una «chiesa piramidale» con a capo il vescovo di Roma.

 

Osservazioni e obiezioni particolari

     ■ Il quadro ecclesiologico che si evince dal NT è quello di una molteplicità di chiese locali, indipendenti fra di loro, unite da vincoli di comunione e di servizio. Dopo che l’Evangelo uscì dai confini della chiesa di Gerusalemme, questa mantenne per un certo tempo una funzione di guida spirituale (cfr. At 15), ossia fintantoché gli apostoli erano rimasti lì. Poi essi si sparsero ai quattro venti per annunciare l’Evangelo. Giacomo e gli anziani della chiesa di Gerusalemme non fecero valere una loro superiorità sulle altre chiese; nella sua epistola Giacomo non pretese nulla di ciò.

     ■ Nella chiesa di Gerusalemme, subito dopo Pentecoste, i credenti non erano sottoposti a Pietro, ma «erano perseveranti nell’attendere all’insegnamento degli apostoli» (At 2,42). Pietro nelle sue due epistole non reclamò nessun privilegio particolare per sé, ma presentò se stesso come un anziano fra gli anziani delle chiese locali a cui scrisse (1 Pt 5,1) e Cristo come «Pastore e Vescovo delle anime vostre» (1 Pt 2,25). Ben presto gli apostoli furono affiancati da sette uomini fedeli (At 6).

     L’autorità dei credenti di Gerusalemme era la chiesa nel suo complesso non una persona particolare. Dopo che Pietro si era recato da Cornelio su ingiunzione del Signore (At 10), quando tornò a Gerusalemme fu lui a doversi giustificare dinanzi ai fratelli della Giudea che lo rimproverarono (At 11,1ss). Qui Pietro non evidenziò un suo privilegio particolare, non si atteggiò a infallibile capo visibile della chiesa né promulgò una dottrina ex cattedra — ma narrò i fatti e fece trarre le conclusioni ai fratelli (vv. 17s). Bisogna ricordare qui anche il rimprovero pubblico fatto da Paolo a Pietro in Antiochia (Gal 2,11ss).

     Quando ci fu il concilio interecclesiale fra le chiese di Gerusalemme e di Antiochia (At 15), gli esponenti di quest’ultima chiesa (non chierici ma «Paolo, Barnaba e alcuni altri dei fratelli»! v. 2a) si recarono dagli apostoli e dagli anziani della chiesa di Gerusalemme (vv. 2b.4.6), fra cui si distingueva già Giacomo. Dopo la proposta di quest’ultimo, la decisione fu presa «dagli apostoli e dagli anziani con tutta la chiesa» (v. 22). Gli «apostoli e i fratelli anziani» della chiesa di Gerusalemme scrissero «ai fratelli di fra i Gentili», non a chierici. Paolo e Barnaba ribadirono fra le chiese, in cui passarono, le «decisioni prese dagli apostoli e dagli anziani che erano a Gerusalemme» (At 16,4). Prima che Paolo fosse arrestato e trasferito successivamente a Roma come prigioniero, non trovò in Gerusalemme un solo apostolo, ma soltanto gli anziani e Giacomo (At 21,18).

     ■ La missione non era guidata in modo centralizzato né era qualcosa solo per specialisti. Spesso la causa maggiore della missione fu la persecuzione che costringeva i credenti a emigrare (At 8,1; 11,19ss). Era il Signore a guidare i credenti ad annunziare l’Evangelo (cfr. At 8,5ss.26ss Filippo). Non fu Pietro a mandare suoi emissari in Samaria, dopo il risveglio, ma «gli apostoli che erano a Gerusalemme, avendo inteso che la Samaria aveva ricevuto la parola di Dio, vi mandarono Pietro e Giovanni» (At 8,14). È chiaro che chi manda (il collegio degli apostoli) ha nel suo complesso più autorità di chi è mandato (Pietro e Giovanni).

     Gli stessi apostoli lasciarono Gerusalemme per recarsi in missione, in ubbidienza al grande mandato. Essi formavano delle «squadre missionarie» e partivano per brevi o lunghi periodi; alcuni di loro non tornarono mai più. Paolo e Barnaba con la loro squadra missionaria partirono in accordo con la chiesa di Antiochia, non con quella di Gerusalemme (At 13,3ss). Tali squadre si formavano non su ordine di un organo centrale, ma sulla libera iniziativa di tali missionari e sul loro desiderio di predicare l’Evangelo e di rafforzare i discepoli (At 15,36). Il rapporto era fra missionari e discepoli. Paolo difese con veemenza la propria autonomia da un qualsiasi organo centrale ed evidenziò, al contrario, che Giacomo, Cefa (= Pietro) e Giovanni (si noti la sequenza!) riconobbero «la grazia» che era stata accordata dal Signore a Paolo e dettero a Paolo e Barnaba — non una concessione istituzionale — ma «la mano d’associazione» (Gal 2,9s). A ciò si aggiunga che tale accordo fraterno stabiliva che Giacomo, Cefa e Giovanni si dedicassero alla missione dei circoncisi, agli Ebrei, mentre Paolo e Barnaba si recassero ai Gentili. Ciò mostra che non c’era una «autorità super partes» che mutu propiu autorizzasse o proibisse alcunché; tutti erano fallibili, anche Pietro (Gal 2,14ss); a ciò si aggiunga che l’obiettivo di Pietro non era quello di avanzare a una posizione di «capo visibile» dell’intera chiesa, ma di dedicarsi semplicemente e soprattutto alla missione dei suoi connazionali insieme a Giacomo e Giovanni (Gal 2,10).

     ■ L’idea di una chiesa centralizzata e organizzata in senso piramidale con a capo una figura istituzionale è estranea agli scritti del NT. Una totale identificazione della «chiesa di Cristo» con una chiesa particolare è estranea allo spirito dell’ecclesiologia neotestamentaria. Non è un caso che il glorioso Signor Gesù, scrivendo sette lettere a sette conduttori di chiese (Ap 2s), si rivolse a sette diverse realtà locali, ingiungendo loro di ravvedersi dai loro rispettivi peccati e intimando loro, in caso contrario, di rimuovere il «candelabro» (= la testimonianza mediante la locale chiesa) da quel luogo (Ap 2,5). Questa ammonizione vale per ogni conduttore di chiesa e per ogni chiesa locale, denominazione e confessione.

     ■ È singolare la distinzione fra «chiesa» (principalmente quella cattolica romana, secondariamente quella ortodossa) e solo «comunità ecclesiali (o cristiane)» o «confessioni religiose cristiane» (chiese della Riforma). Il NT conosce un solo concetto per tutte le specie ecclesiali: ekklēsìa significa in greco «raduno, assemblea, radunanza, assembramento, incontro pubblico» ed è usato per qualsiasi realtà ecclesiale, sia generale, sia locale, sia per il semplice raduno. Con questa arrogante retorica clericale si snatura i veri contenuti della dottrina neotestamentaria sulla chiesa.

 

 

3.  ASPETTI CONCLUSIVI

     Chi stabilisce in modo arbitrario dei criteri per essere «chiesa», poi si arrogherà anche il diritto di essere anche «l’unica chiesa» e di stabilire che cosa siano le altre, permettendosi l’arroganza di dare voti e pagelle ecclesiologiche. Il clericalismo (sacerdozio ministeriale), il sacramentalismo (elementi biblici resi mysterion religioso mediante un rito per accreditare un clero) e la successione apostolica sono le ideazioni, abilmente inventate nel corso dei secoli e introdotte nella chiesa, per stabilire tale presunto diritto particolare.

     La «chiesa orizzontale» — fatta di fratelli, sottomessi a Cristo come unico capo e alla sua Parola come unica autorità — è stata così trasformata in una «chiesa piramidale», guidata da un clero che intende difendere continuamente i propri privilegi mediante asserti religiosi fatti a propria immagine e somiglianza. Come recita il famoso proverbio: «Il lupo cambia il pelo, ma non il vizio».

     Se chiedessimo al Signore Gesù Cristo: «Dove si trova la tua chiesa?» — Egli risponderebbe senza indugio come nel brano biblico, in cui compare in greco il termine ekklēsìa «assemblea, raduno» (Mt 18,15-20): «Dovunque due o tre sono radunati nel nome mio, qui sono io in mezzo a loro» (v. 20). E questo è il senso del termine greco katholikē «generale, universale» unito a ekklēsìa «chiesa»: dovunque nel mondo ci sono discepoli radunati nel nome di Gesù, lì c’è la chiesa del Signore, l’assemblea messianica. È singolare che una «chiesa particolare», quella «di Roma» si arroghi il diritto di imporre alla ekklēsìa katholikē «chiesa generale» che cosa debba essere la ekklēsìa e chi debba esserlo.

     Nell’Apocalisse Gesù si presentò come Colui che si manifesta glorioso tra i «sette candelabri d’oro» (Ap 1,12s), ossia le sette chiese prese a modello, e che ha in mano le «sette stelle», ossia i suoi conduttori (angheloi v. 20). Egli affermò di essere «colui che tiene le sette stelle nella sua destra e che cammina in mezzo ai sette candelabri d’oro» (Ap 2,1). Quindi una ekklēsìa si trova laddove Cristo è presente di persona in essa come capo e dove ci sono conduttori sottomessi a Lui. Altrimenti, come già menzionato sopra, il Signore lanciò a tale conduttore questo avvertimento: «Ricordati dunque dove sei caduto, e ravvediti, e fa’ le opere di prima; se no, verrò a te, e rimoverò il tuo candelabro dal suo posto, se tu non ti ravvedi» (v. 5). Ogni chiesa (candelabro), che si è allontanata dai fondamenti biblici e dalla sana dottrina e rifiuta di tornarci (ravvedimento), si trova sulla via dell’apostasia (cfr. Ap 2,9; 3,9 «sinagoga di Satana») e sta perciò per essere rimossa dal Signore dal suo posto.

     Se chiedessimo all’apostolo Paolo: «Dove si trova la chiesa di Cristo?» — egli risponderebbe senza esitazione che la «chiesa di Dio» è formata dai «santificati in Cristo Gesù», ossia da «tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore loro e nostro» (1 Cor 1,2). Essendo essi discepoli del Signore, non devono sviluppare particolari complessi d’inferiorità dinanzi alle pretese di un clericalismo arrogante.

     Essi non hanno bisogno di particolari mediatori, essendo tutti sacerdoti del Signore. Questo fu evidenziato ripetutamente dall’apostolo Giovanni dinanzi alla gloriosa visione del futuro: «A lui che ci ama, e ci ha liberati dai nostri peccati col suo sangue, 6e ci ha fatti essere un regno e sacerdoti al Dio e Padre suo, a lui siano la gloria e l’impero nei secoli dei secoli. Amen» (Ap 1,5s; 5,9s; 20,6).

     Lo stesso apostolo Pietro, che si definì anziano fra gli anziani (1 Pt 5,1), evidenziò tale sacerdozio universale di tutti i credenti: «Voi siete una generazione eletta, un sacerdozio regale, una gente santa, un popolo che Dio s’è acquistato, affinché proclamiate le virtù di Colui che vi ha chiamati dalle tenebre alla sua meravigliosa luce» (1 Pt 2,9). Questo ci basta. Voti e pagelle le darà il Signore stesso alla fine dei tempi (Mt 12,36; Rm 14,12).

 

L’arroganza vaticana? Parliamone {Nicola Martella}

Sfogo di cattolico sul viaggio papale negli USA {Fausto Marinetti} (A)

 

► URL: http://puntoacroce.altervista.org/_Den/1-Arroganza_chiesa_romana_UnV.htm

12-07-2007; Aggiornamento: 02-05-2008

 

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