Un taglio netto alle convenzioni anti-bibliche e pseudo-bibliche, all'ignoranza e alle speculazioni — Ein klarer Schnitt zu den anti-biblischen und pseudo-biblischen Konventionen, zur Unwissenheit und den Spekulationen — A clean cut to the anti-biblical and pseudo-biblical conventions, to the ignorance and the speculations — Une coupe nette aux conventions anti-bibliques et pseudo-bibliques, à l'ignorance et aux spéculations — Un corte neto a las convenciones anti-bíblicas y pseudo-bíblicas, a la ignorancia y a las especulaciones

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Offensiva intorno a Gesù 1

 

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 Offensiva intorno a Gesù 2

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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La Bibbia che Gesù leggeva

(STUDIO CRITICO)

 

Philip Yancey, La Bibbia che Gesù leggeva. L’Antico Testamento (Claudiana, Torino 2003).

 

(I contributi rispecchiano le opinioni personali degli autori. Quelli attivi hanno uno sfondo bianco)

 

Nicola Martella

Secondo

Terzo

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Nicola Martella:

 

1.  L’APPROCCIO ALL’AT: L’approccio dell’autore all’AT è «personale e soggettivo» e la chiave di lettura vuol essere quella del «comune lettore» (p. 7). Il libro non vuole affrontare problemi particolari, a cui l’autore continuamente accenna (a volte anche a torto, perché semina dubbi a cui non risponde), «bensì ha l’intenzione di farci conoscere noi stessi» (p. 9). Infatti, Yancey finisce con lo scrivere un libro non «di risposte ma di domande» che allo stesso tempo fanno infuriare e appagano (p. 11). Egli pone in evidenza il rischio di porre domande alla Bibbia: esse si ritorceranno immancabilmente contro chi le pone (p. 11s). Dio non nasconde affatto i problemi, ma addirittura li anticipa, mettendoteli davanti. La Bibbia quasi ti provoca a metterla in discussione, ma così facendo (questa è l’ambivalente dialettica) ti mette personalmente in discussione. l Bisogna evidenziare l’onestà intellettuale, quando scrive: «Ho sempre lottato perché si accettassero le sconcertanti incoerenze dei Salmi, e il modo migliore che io conosca per lottare è scrivere di qualsiasi cosa mi infastidisca» (p. 8). Egli contesta, ad esempio, il facile uso che si fa dell’attraversamento del Giordano come «metafora di un trionfo spirituale» (p. 8) e parla dei danni subiti, fin dall’infanzia, a causa dell’abuso che si è fatto dei misteriosi libri profetici come materiale per le predicazioni (p. 8). l Dell’AT l’autore apprezza soprattutto il realismo senza «abbellimento» (p. 8 ted.) e «senza esclusione di colpi» (p. 9 it.). La sua tesi, secondo cui Dio avrebbe specialmente «balbettato» nell’AT (it., p. 10) o usato in esso un «linguaggio infantile» (ted., p. 9), convince soltanto in parte e getta molti interrogativi irrisolti. l Per molti tratti l’opera è una commistione fra profondi pensieri biblici, autobiografia, aneddoti e scrupolo che il lettore capisca e venga invogliato nella lettura dell’AT, secondo il motto: «Io ci sono passato prima di te… e posso capire le tue difficoltà».

 

 

2.  ALCUNI ASPETTI DELL’OPERA: Nel capitolo «Vale la pena di conoscere l’Antico Testamento?» l’autore mostra che per i lettori moderni esso «non sempre è comprensibile, e ciò che si capisce offende orecchie moderne» (p. 14). Anzi, l’AT rischia di diventare il grande sconosciuto anche tra i cristiani. Viste le «stranezze» che esso contiene, «vale realmente la pena di leggere e capire l’Antico Testamento?» (p. 15). Gli uni evitano del tutto di leggere l’AT, altri pochi lo saccheggiano per trovare qualche «chicca» spirituale. Narrando la sua esperienza con la lettura dei 39 libri dell’AT, riassume: «Mi hanno insegnato come vivere con Dio: non come dovrebbe essere, ma come realmente è» (p. 17). Quanto a contenuto l’AT si differenzia da altri libri per la sua eterogeneità; sorprende comunque la sua unità e il suo stile personale e appassionato. Yancey mostra giustamente che non è solo l’AT ad essere insufficiente senza il NT, ma anche al contrario (p. 18ss). Infatti, il NT è da solo insufficiente per capire Dio o il nostro mondo. La stessa cultura occidentale si poggia sulle basi poste dall’AT, specialmente sul monoteismo, sulla concezione della «coscienza», sulla dignità umana, su una legislazione giusta, sui diritti dei più deboli (cfr. i movimenti per i diritti umani) e sulla terminologia dell’AT (p. 18s). A ciò si aggiunge anche il fatto che difficilmente si potrà comprendere pienamente il NT o alcuni suoi libri (cfr. Mt-Gv, Eb, Gd, Ap) a prescindere dall’AT, dal suo linguaggio e dal suo mondo di idee (p. 19s). A differenza dei credenti dei secoli passati, molti di quelli odierni hanno perso il senso di coesione che lega i due testamenti (p. 20). Le idee, il linguaggio, i generi letterari, le predizioni, la teologia dell’AT permeavano la concezione che Gesù aveva di sé e della sua missione (cfr. Lc 24,25ss), il suo linguaggio, le immagini e le metafore usate e così via. l Se si prescinde dall’AT, si avrà una concezione impoverita di Dio, del Dio che agisce nella storia con benignità e severità e del timore e della riverenza che gli sono dovute (p. 22s). A differenza del nostro mondo secolarizzato, la vita degli Ebrei era quotidianamente piena della presenza e del ricordo di Dio. Essi erano sollevati dal fatto che Dio aveva stabilito con loro un rapporto diretto, stabilendo il patto. l Un altro aspetto è come Dio agisce nella storia. Dal punto di vista umano può sembrare che Dio si muova in modo lento, imprevedibile e paradossale (cfr. Abramo, sterilità delle matriarche, permanenza in Egitto, esodo, Gesù di Nazaret). «Da Abramo a Giuseppe, a Mosè e Davide, guadagniamo almeno la consapevolezza che Dio si muovi in modi che noi non potremmo prevedere o perfino desiderare» (p. 28). A ciò si aggiunge che la storia tracciata dall’AT è quella di un Dio personale, seguendo il quale non si può sbagliare, un Dio interessato, partecipe e che ama (p. 28s). È sorprendente come il Dio sovrano della storia non soli influenzi il mondo e le persone, ma permetta a quest’ultime di esercitare un’influenza su di lui (lamento, intercessione, lode, lotta con Dio, processo) — questo marca una chiara differenza col paganesimo (p. 32s). A ciò si aggiunge che, riguardo al rapporto con Dio, le persone di cui parla la Bibbia, ebbero con Lui esperienze completamente differenti e individuali; per questo bisogna rifuggire da formule generali (p. 33). I Salmi fanno conoscere persone piene di disorientamento, confusione, collera, disperazione ed angoscia; eppure proprio da tali Salmi citarono Gesù e gli scrittori del NT! (p. 34).

 

 

3.  CENNI AL RESTO DELL’OPERA: L’autore presenta l’AT, diciamo, per campionatura, affrontando specialmente i seguenti libri: Giobbe, Deuteronomio, Salmi, Ecclesiaste e i Libri Profetici.

     n Nel trattare Giobbe mette a fuoco i problemi reali del libro: non la sofferenza in sé, ma la crisi e la sfida della fede. È un’analisi che corrobora le mie convinzioni e per la quale sono grato. Sorprende comunque che Yancey manchi di un termine tecnico come «dogma del contraccambio» (quel che uno semina, miete), ma usi un generico «patto di fede», termine che può soltanto aumentare gli equivoci e che nella teologia dell’AT ha tutt’altro significato.

     n L’autore non affronta il Deuteronomio da un punto di vista di una struttura teologica del libro, ma crea una coreografia, più o meno verosimile, per rendere plausibili alcuni contenuti del messaggio. Qui disturba l’immagine che dà di Mosè — vecchio che patisce il freddo, nonostante la canicola, e che dev’essere sorretto da altri (p. 68). Viene altresì descritto come un vecchio dalla voce affaticata, a cui «la fatica ha paralizzato l’esistenza» (p. 84). Ecco come viene descritto il capo Mosè alla fine dei suoi discorsi: «Esaurito, senza voce, il vecchio crolla [ted. = atono cade il tremante anziano] nelle braccia dei suoi assistenti… mentre con delicatezza lo aiutano a discendere dalla roccia affidandolo ad altri che stanno aspettando sul terreno sottostante» (p. 88; ted. = p. 100). Questa immagine sta in netto contrasto con quella data da chi lo conosceva da vicino: «Mosè aveva 120 anni… la vista non gli si era indebolita e il vigore non gli era venuto meno» (Dt 34,7). l Anche l’immagine, secondo cui Mosè avrebbe avuto dinanzi a sé soltanto ragazzi innocenti, anzi bambini (p. 69.76), che mai avevano visto l’Egitto e i suoi splendori, è un’immagine soltanto romantica che non ha nessun fondamento. Infatti, coloro che non avrebbero potuto entrare in Canaan, ma sarebbero morti nel deserto, erano soltanto gli Israeliti da vent’anni in su (Nu 32,11). Gli Ebrei nati fino a Nu 14, al tempo del Deuteronomio avevano da circa 40 (quelli nati nel deserto) a circa 60 anni (quelli nati nell’Egitto)! Alcuni di loro erano già nonni, se non bisnonni! l Quanto Yancey afferma sull’infanzia, sulla gioventù e sull’età matura di Mosè è spesso pittoresco, forse a tratti verosimile, ma rimane una interpretazione e una congettura che trascende ciò che afferma il testo canonico. È mera interpretazione che hapiru fosse una parola di gergo egiziano, che avrebbe significato «polveroso» e con cui gli Egiziani avrebbero indicato l’Ebreo (p. 71.92). l Sorprende che Yancey chiami gli Israeliti continuamente «Ebrei», sebbene nel Deuteronomio compaia una volta sola (Dt 15,12), soltanto 14 volte nell’Esodo e 32 volte soltanto nell’intero AT; l’espressione «figli d’Israele» si trova invece 120 volte in Es, 20 volte in Dt (52 in Lv, 157 in Nu) e 598 nell’AT. l Non si capisce perché Giosia debba essere stato un «re-bambino», quando fece restaurare il tempio (p. 93), visto che aveva 18 anni (2 Re 18,3); questo linguaggio si adatta più a Gesù visitato dai savi d’oriente (Mt 2,2.11).

     n Egli narra i suoi diversi approcci per capire il libro dei Salmi: dapprima la lettura risultò sconfortante, fastidiosa e patologica, poi finalmente trovò la chiave per aprire questi 150 testi affascinanti e problematici. Infine concluse: «I 150 Salmi sono difficili, confusi e caotici come la vita stessa, un fatto che può offrirci inaspettato conforto» (p. 104). Chi si trova in una pesante situazione esistenziale, la lettura dei Salmi può effettivamente trasformare i sentimenti di uno sconfitto e addolorato, nutrendo gradualmente in lui una vivida speranza. I Salmi possono prestarsi altresì ad una vera e propria terapia psichica e spirituale, poiché questo libro non nasconde i variegati sentimenti di coloro che si sentivano delusi da Dio. Il Salterio mostra che si può andare a Dio con tutto ciò che si sente al suo riguardo, senza coprire le proprie emozioni, confidando che Egli ha il potere di guarire. Molti Salmisti si fanno strada più o meno così verso Dio: «Signore, io credo, sovvieni alla mia incredulità». l Particolare è lo sforzo di Yancey di mostrare la connessione fra la visione spirituale che Davide dà della sua vita nei Salmi e la descrizione dei fatti di primo piano, a cui fanno riferimento le intestazioni di alcuni salmi e che sono descritti dai libri storici (1-2 Sam). Se in questi ultimi è Davide l’uomo vigoroso e coraggioso, nei Salmi egli mette al centro della scena Dio stesso. l Vale la pena leggere anche il suo excursus sui «salmi di imprecazione o di vendetta» (p. 117-123).

     n Nell’Ecclesiaste la distinzione fra le due versioni avviene fin dal sottotitolo: «la fine della sapienza» (it.) e «la conclusione ultima della sapienza» (ted.). I primi editori, seguendo probabilmente la critica alla Bibbia, si basano sul filone critico della «crisi della sapienza», i secondi no. Yancey stesso mostra di seguire l’impostazione della critica alla Bibbia, quando chiama l’Ecclesiaste «l’anonimo maestro» (it.) o «un anonimo predicatore» (ted). Pur di salvare la sua tesi sulle differenze sostanziali fra Proverbi ed Ecclesiaste, egli dubita — a torto — della paternità salomonica del libro (p. 130); poi, però, per salvare un po’ «capre e cavoli», pone il libro nell’ambito d’influenza di Salomone (ted.) o sotto la sua «protezione» (it.). In seguito, però, parla del «re Salomone, l’oscuro personaggio che si cela dietro il libro» (p. 142). L’autore allinea l’Ecclesiaste agli autori esistenzialisti moderni e proietta questi ultimi su questo antico libro orientale. Le presunte sostanziali differenze fra l’Ecclesiaste e Proverbi e fra l’Ecclesiaste e Giobbe non sempre convincono e spesso sono costruite artificiosamente. l In ogni modo, secondo Yancey il libro vorrebbe semplicemente ricordarci la limitatezza umana e quali siano le inevitabili conseguenze di chi vive senza che Dio sia al centro della sua vita. l Il suo presunto confronto finale fra la «città dell’uomo» (regno di questo mondo) e la «città di Dio» (regno del cielo) rimane una pura costruzione che sposta il piano di argomentazione riguardo alle parole di Gesù, che egli cita, e pone in cattiva luce la legittima richiesta dei discepoli prima dell’ascensione riguardo al ristabilimento del regno per Israele (At 1,6).

     n In un primo momento può sembrare che anche Yancey applichi i termini profeti / profezia in senso dogmatico direttamente all’escatologia, privando così la proclamazione di questi servi di Dio della loro peculiarità principale di essere gente del presente! Poi però l’autore mostra che è solo una concessione (e la sua vecchia mentalità sui profeti), per poter affermare (allora in vista dell’anno 2.000!): «Coloro che hanno un’osses­sione per la profezia intesa come predizione, che leggono questi diciassette libri essenzialmente per scoprire cosa avverrà nell’imminente futuro, no riusciranno certo a cogliere il loro grande contributo… I profeti sono il più grande contributo sulla persona di Dio» (p. 157). Egli mostra l’umanità dei profeti, le loro problematiche per capire Dio e i loro artifici per attirare l’attenzione di animi gretti e per rendere il loro messaggio comprensibile. Inoltre viene mostrato il vasto spettro dei sentimenti di Dio verso Israele. Yancey mostra anche i vari interrogativi d’Israele nei momenti di profonda crisi storica e come il «Servo dell’Eterno» abbia costituito la risposta agli interrogativi del popolo. In ogni modo, l’AT si chiude con molti interrogativi irrisolti.

     n Nell’articolo finale (it: «Echi anticipati di una risposta finale»; ted. «Pregustazione di una risposta finale»), Yancey mostra nuovamente la sua onestà intellettuale e il suo coinvolgimento personale nella materia. Ricalca nuovamente le molteplici questioni poste dall’AT e le principali domande risultanti: Io conto qualcosa? Dio si occupa di noi? Perché Dio non agisce? Poi mostra che, sebbene Gesù non si sia pronunciato su tutte queste questioni, pure Egli stesso è la risposta alle domande angoscianti dell’uomo. Yancey cerca quindi di mostrare come ciò sia concretamente possibile. Da tale risposta dipende il fatto perché uno non rimane semplicemente ebreo limitato all’AT e coscientemente si dichiara cristiano, secondo il NT.

 

{Nicola Martella, recensione comparsa in Lux Biblica 29 (IBEI, Roma 2004), pp. 163-169}


 

Per approfondire il «dogma del contraccambio» nel libro di Giobbe cfr. Nicola Martella, «Giobbe», Radici 1-2 (Punto°A°Croce, Roma 1994), p. 79-87.

   Per approfondire i patti dell'AT cfr. Nicola Martella, «Patti di Dio», Manuale Teologico dell’Antico Testamento (Punto°A°Croce, Roma 2002), p. 254-260; cfr. qui anche «Patto di grazia», p. 265.

 

Si veda pure lo studio critico comparativo

 

 

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Ricordiamo che ognuno può mandare la recensione di un libro da lui letto o anche solo le sue osservazioni al riguardo. Tutto ciò rispecchia esclusivamente le convinzioni di chi si esprime e non necessariamente quelle della redazione di «Fede controcorrente» sull’argomento.

 

Aggiornamento: 01-05-07

 

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